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Misurare l’efficienza aziendale: una sfida possibile

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Il contesto competitivo è oggi fortemente mutevole, data la possibile combinazione di processi e prodotti atti alla creazione di valore, le opportunità offerte dalla tecnologia e dall’individuazione di nuovi segmenti di mercato; ciò è tanto più vero per un’impresa in continua crescita e rinnovamento strategico. Tali meccanismi impongono un costante e ragionato monitoraggio delle prestazioni d’impresa non solo in termini di efficacia dell’azione commerciale ma, e forse soprattutto, in termini di corretta gestione dei costi operativi.
Il caso Kasanova permette di illustrare come anche per un’azienda di successo, in continua espansione, solida e attenta alle tematiche di programmazione e controllo, possano sussistere aree di ulteriore efficientamento nella gestione dei costi e di sviluppo di nuove abilità nella comprensione nelle dinamiche di business e infra-aziendali. L’analisi svolta con l’utilizzo di vettori di costo permette un assessment analitico delle dinamiche passate e contemporaneamente (attraverso la stima dei valori futuri degli stessi vettori) un outlook sui futuri valori di costo.

A cura di:
G. Meloni, Senior Lecturer SDA Bocconi, DGM Partner
F. Merella, DGM Consultant

 

L’azienda e il fabbisogno

Kasanova è la più grande catena di negozi di articoli per la casa e per la lista nozze in Italia, con più di 180 punti vendita diretti o in franchising. Nel 2010 ha raggiunto un fatturato superiore agli 80 mln di euro e circa 400 dipendenti.
Nasce ad Arcore nel 1968 con il nome di F.lli Fontana, grazie alla passione per i casalinghi della fondatrice, Giannina Fontana, che intraprese una sfida imprenditoriale in grado di cambiare radicalmente la distribuzione in Italia del settore dei casalinghi. Per anni F.lli Fontana è stata un’impresa con una buona tradizione di grossista per i dettaglianti ‘tipo bazar’; nel 1994 la svolta da grossista a catena di negozi in franchising con il neonato marchio italiano nella distribuzione dei casalinghi: “Kasanova. L’amante della Casa”.
Kasanova è cresciuta negli anni grazie a una profonda conoscenza del mercato, a partnership con i più autorevoli fornitori nazionali e internazionali, alla ricerca di innovazione (è stata la prima realtà a proporre la lista nozze online) e qualità del servizio. Recentemente ha sposato l’innovazione anche nel marchio, trasformandosi per il settore b2c in ‘Kasanova.it’.
Benché altre realtà societarie siano nate per joint venture dedicate a specifici segmenti di business (si pensi a Kasalinghi Italia e la relativa gestione commerciale degli Outlet Italian Factory), realtà societaria primaria dell’orbita Kasanova è rimasta F.lli Fontana s.r.l. gestrice, nel 2010, del mondo b2c (95 punti vendita diretti e canale online) e società che svolge attività di approvvigionamento per i negozi affiliati (a marchio Kasanova e L’Outlet del Kasalingo).
Negli ultimi anni la crescita dei punti vendita, sia direttamente gestiti che affiliati, ha condotto a una evoluzione dimensionale della struttura centrale, a supporto di entrambe le realtà. Contemporaneamente il management ha intrapreso un’azione di ridefinizione dell’offerta di prodotto e servizi (costante è l’attenzione da parte della Direzione Commerciale ai cambiamenti sociologici e alle preferenze del cliente) e di focalizzazione sull’attività di gestione diretta dei punti vendita (con la ridefinizione delle figure di area manager e store manager e la centralizzazione di molte funzioni). La diversa focalizzazione in termini di assortimento e la maggiore concentrazione sull’attività di vendita diretta hanno inevitabilmente ridefinito le logiche di marginalità sottostanti all’azienda. Al cambiamento di dette logiche ha anche contribuito la diversa pressione competitiva e l’atteggiamento del cliente finale sempre più orientato alla massimizzazione del rapporto qualità-prezzo. Poiché non è pensabile un aumento dei prezzi al consumatore, né sono sempre ipotizzabili fatturati e marginalità crescenti a livello di punto vendita, solo l’unione di tecnologia e fattore umano a supporto dell’offerta, può rappresentare l’unica arma per far fronte alla crisi dei consumi e al lievitare dei costi.
Da qui la necessità, in un certo senso obbligata, di verificare la congruità della struttura di costo aziendale rispetto all’affermarsi di nuove strategie aziendali e di nuovi fabbisogni riconducibili all’evoluzione del contesto competitivo. Tale analisi è stata condotta sia avendo a riferimento la struttura distributiva (punti vendita e catena logistica ad essi associata), sia le strutture centrali. Peraltro nel tempo la crescita aziendale (in termini di volumi e di complessità operativa) ha determinato un’inevitabile aumento di entrambe le tipologie di costo secondo una dinamica inerziale che rendeva necessaria una verifica delle condizioni di efficienza operativa.
In realtà una verifica periodica delle condizioni di efficienza aziendali è necessaria periodicamente. I costi tendono a crescere per effetto di abitudini passate che raramente vengono messe in discussione, di prassi di comportamento che nascono da esperienze pregresse e vengono mutuate anche in contesti nuovi. Da qui la necessità di verificare le dinamiche di costo e, se necessario, di mettere in discussione scelte di processo che possono essere non ottimali dal punto di vista dell’allocazione delle risorse. Se, dunque, nel caso di Kasanova il driver di analisi dei costi è figlio di un cambiamento di contesto e strategico, per altre aziende la determinante dell’analisi potrebbe essere semplicemente la verifica delle condizioni di efficienza funzionale alla comprensione di ‘congruità’ dei processi operativi aziendali. In questi casi è, tuttavia, indispensabile evitare che il controllo dei costi venga gestito secondo la logica del ‘taglio lineare’. Tale approccio può tradursi, anzi si è tradotto in molte esperienze, in drammatiche riduzioni dei livelli di servizio; e, al fine del recupero degli stessi, i costi hanno semplicemente cambiato natura nel periodo immediatamente successivo piuttosto che essere ridotti nel loro ammontare complessivo.
La metodologia nel seguito descritta, partendo dall’identificazione dei driver di costo, vuole condurre all’evidenza delle reali inefficienze operative e fornire un giudizio di bontà circa la corretta gestione delle diverse voci di costo e un giudizio sulla loro dinamica rispetto al variare della complessità e dei volumi dell’attività aziendale.

La metodologia

Nei sistemi di analisi (e calcolo) dei costi una delle scelte più critiche è rappresentata dai driver di allocazione. Non tutti i costi sono imputati e/o imputabili all’oggetto finale di calcolo (sia questo il prodotto/servizio o il cliente) e vengono perciò, in detti sistemi, localizzati a un livello intermedio di aggregazione: i centri di costo. I centri di costo coincidono con attività funzionalmente organizzate per lo svolgimento di definite operazioni. Con l’identificazione dei centri di costo si intende scomporre perciò il processo di produzione economica in fasi atte ad orientare aggregazioni significative dei dati elementari di costo.
Tale operazione viene spesso ritenuta un mero esercizio contabile, ma in realtà nasconde una comprensione profonda delle logiche di ‘consumo dei costi’. È, infatti, nei centri di costo che si realizza l’allocazione delle risorse (idealmente in base alla comprensione delle logiche di fabbisogno) e si determina il loro consumo (in base ai processi operativi e alle richieste operative che ne conseguono). In questo disegno i driver di allocazione sono i coefficienti che permettono di ricondurre a un ulteriore oggetto di calcolo (differente dal prodotto / servizio) i costi assegnati a centri di costo intermedi, concorrendo a definire le relazioni tra i livelli intermedi di aggregazione individuati. Il processo di allocazione dei costi può essere visto in ottica meramente strumentale (cioè finalizzato a ricondurre costi, localizzati in aggregazioni intermedie, all’oggetto finale di calcolo) o vi si può guardare al fine di esplicitare le relazioni di causalità in funzione delle quali pervenire alla definizione di un modello interpretativo dell’economia di impresa; ossia un modello all’interno del quale vengano riconosciute le connessioni che si instaurano tra le diverse fasi in cui si articola il processo di produzione economica complessivo.
È ancor più in questa seconda prospettiva che l’allocazione dei costi assume un ruolo centrale, poiché è in tale ambito che occorre sviluppare ipotesi interpretative in merito alle logiche sottostanti lo svolgimento dell’attività aziendale. Ed è in tale prospettiva che viene preso in considerazione nella presente trattazione. Sono tre le differenti soluzioni alternative a cui generalmente si riconduce la selezione degli opportuni driver di allocazione (indicatori di impiego, indicatori di attività e indicatori di capacità) ma parimenti si può ricorrere a una combinazione delle tre, laddove vi sia necessità di utilizzare vettori per le diverse tipologie di costo (che presentano logiche di comportamento differente) al fine di ottenere una significativa rappresentazione delle relazioni causali che si instaurano tra i differenti aggregati intermedi di costo; è nuovamente questo il caso in esame.
Nella seguente trattazione ci si riferirà a tali driver anche con la dicitura driver (o vettori) di costo, riferendosi agli stessi elementi ora descritti, con la più marcata peculiarità di porsi non solamente come determinante del consumo ma altresì, e soprattutto, come fattore scatenante del dato di costo. A ciascun driver si può quindi guardare quale fattore di mediazione tra l’oggetto di costo e le sue attività direttamente connesse nonché le sue risorse in ultima analisi pertinenti.
I driver di costo possono perciò essere classificati (si veda tabella 1) guardando alle relazioni quantitative tra costo totale e fattore di costo. Non sempre i driver sono riconoscibili in prima analisi; la loro identificazione richiede un’analisi dei comportamenti dei costi e della relazione causale tra risorse impiegate, logiche di lavoro e output prodotti. Possono essere ricercati per via empirica e/o statistica ed essi devono essere correlati, da un lato, con le dinamiche di crescita/riduzione dei costi e, dall’altro, essere espressivi delle logiche di consumo degli stessi costi da parte degli oggetti intermedio e finale di calcolo (prodotto/ servizio).
L’applicazione di tale metodologia, usualmente riferita a un contesto produttivo, al settore retail (per il quale resta valida e applicabile) non può che tenere conto di alcune dinamiche a cui lo stesso è da tempo soggetto. La componente di servizio sta acquisendo sempre maggiore rilevanza rispetto alla componente di prodotto nel soddisfacimento dei fabbisogni del cliente, conducendo a differenti modalità di governo della relazione prezzo-costo e, conseguentemente, delle regole di rappresentazione quantitativa della relazione, ossia della rilevazione e interpretazione dei risultati.
Il punto vendita non si configura perciò solamente quale centro di costo finale, alimentato da costi per esso specifici (attribuitivi in via diretta) e da costi allocati (quali i costi propri delle strutture centrali), ma altresì quale oggetto finale di calcolo, laddove il risultato conseguito (generato da ricavi e componente di costo) non viene ulteriormente scomposto tra le diverse tipologie di prodotto commercializzato o di cliente servito.
Nella rappresentazione dei risultati di punto vendita, l’enfasi è posta sulla dimensione reddituale e, in particolare, su:
• Margine Lordo (Gross Margin o Margine di Intermediazione Commerciale), esplicativo della capacità di “intermediazione” del punto vendita, ovvero dell’abilità dello store di combinare adeguatamente politiche di prezzo, di acquisto e scelte di mix (che qualificano ampiezza e profondità dell’assortimento). Tale margine è quindi evocativo, nel tempo o rispetto ai concorrenti, della maggiore o minore capacità di compravendita del punto vendita; ma non ne rappresenta la reale marginalità, soprattutto alla luce della rilevanza del servizio offerto.
• Margine Operativo (Operating Income), è il margine realmente espressivo della capacità di store di governare nella sua interezza la relazione tra prezzo e costo; intendendo ora per costo non solo il costo di acquisto e di disponibilità dei beni offerti ma anche quei costi che concorrono a configurare la struttura e il funzionamento dei punti vendita, ovvero a definirne il livello di servizio che si intende garantire al cliente finale.
È la differenza tra i due a qualificare quantitativamente la strategia di commercializzazione perseguita da un punto vendita. All’aumentare della distanza fra Margine Lordo e Margine Operativo cresce la componente dei costi operativi e, conseguentemente, cresce la componente di servizio del punto vendita. Se, infatti, lo store si caratterizza per una logica di vendita priva di assistenza, ad esempio, i costi operativi tenderanno a ridursi e la distanza fra i due margini a diminuire. Al contrario al crescere del livello di assistenza i costi operativi cresceranno inevitabilmente e la differenza fra i due margini crescerà. La crescita del servizio come componente chiave della strategia di vendita determina quindi un’inevitabile aumento dei costi operativi; è, tuttavia, indispensabile comprendere se tale crescita è anche data dall’affermarsi di condizioni di efficienza / inefficienza. Proprio per questa ragione è sui costi operativi di punto vendita, determinanti del gap tra i due margini in oggetto, che è focalizzata l’analisi nel seguito proposta.
L’interpretazione della stessa e, più in generale dei risultati aziendali e di punto vendita, non può prescindere da leggere le evidenze fornite dal sistema di analisi (e calcolo) dei costi avendo a mente due relazioni:
• Risultati – scelte strategiche (relazione espressiva della valenza conoscitiva del sistema)
• Risultati – responsabilità organizzative (questa espressiva del valore organizzativo – di guida dei comportamenti – dello stesso)
In altre parole i risultati di punto vendita possono essere correttamente ed esaustivamente interpretati avendo come riferimento la loro capacità di misurare l’efficacia delle scelte aziendali e di legarle al sistema delle responsabilità organizzative. Ciascun punto vendita può, quindi, con riferimento al grado di autonomia in merito a tali scelte essere classificato come autonomo (qualora lo sia nel definire uno proprio specifico assetto strategico e organizzativo) o come appartenente a una catena distributiva (qualora le scelte strategiche e organizzative abbiano natura condivisa).
In quest’ultimo caso, a una omogeneizzazione strategica corrisponde una centralizzazione organizzativa, che rischia di porre come assolutamente marginale la responsabilità di punto vendita nel conseguimento dei risultati aziendali: entrambi i margini si configurano come espressivi della sola coerenza tra il formato commerciale definito a livello centrale e i fabbisogni e le aspettative del bacino di utenza locale e, da un punto strategico e gestionale viene meno la rilevanza del Conto Economico di store nella responsabilizzazione del gestore del punto vendita; mentre resterebbe valido la responsabilizzazione di chi, a livello centrale, governa la definizione dell’offerta.
Opposta è la lettura da dare ai risultati di uno store che gode di autonomia decisionale sia in termini di assetto strategico sia di assetto organizzativo. In tal caso entrambi i margini (di Intermediazione Commerciale e Operativo) sono pienamente riconducibili a scelte strategiche di store e sono rappresentativi della capacità del management di punto vendita di proporre un formato commerciale in linea (o meno) con le aspettative del bacino di utenza locale (scelte di assetto) e della capacità di gestione corrente del punto vendita in termini di massimizzazione dell’efficacia commerciale e dell’efficienza produttiva.
Dal punto di vista organizzativo/gestionale, ogni leva di azione è propria del responsabile di punto vendita che ha così piena responsabilità dei risultati conseguiti (unica difficoltà nella analisi reddituale potrebbe sussistere nel momento in cui essa legge le implicazioni legate a scelte di M/l e di breve termine e in quanto tale non consente una piena interpretazione dei risultati).
Una situazione ‘ibrida’ si verifica quando a un punto vendita ‘di catena’ vengono concessi ampi spazi di autonomia sia strategica sia organizzativa; in tal caso l’economia di store riacquista valore rispetto all’economia di catena, con i risultati reddituali di punto vendita espressivi di efficacia ed efficienza di vendita e parimenti adeguati ai fini delle responsabilizzazione organizzativa. In tale situazione, al fine della valutazione dei risultati e in particolare, nuovamente, dell’Operating Margin, si rende necessario almeno un correttivo: separare le componenti di reddito che sono frutto di scelte eseguite a livello centrale da quelle che sono per larga parte riconducibili alla gestione locale (di punto vendita). Viene così definito un primo margine operativo, definito ‘controllabile’. Tale accorgimento migliora l’espressività dei risultati di store ma poco dice circa le determinanti dei risultati analizzati.
Il caso proposto vuole rispondere a tale necessità di individuazione delle leve gestionali a determinazione dei risultati di store (e aziendali), focalizzando l’attenzione sui valori di costo operativo o, meglio, sulle determinanti di quel gap tra Margine Lordo (proprio di una dimensione di prodotto / servizio) e Operating Margin, che è significativo della strategia di commercializzazione perseguita dal punto vendita e/o dai vertici aziendali (laddove si tratta di punti vendita di catena). A tal fine, rientrano in gioco i driver di allocazione, strumento per parametrare il dato di costo di ciascun esercizio all’unità minima della sua determinante (che ne spiega il consumo) individuata appunto nello stesso driver.

Le tre tipologie di driver di allocazione
Indicatori di Impiego: divengono utili ogniqualvolta le relazioni fra i centri coinvolti nel processo di allocazione, oltre a variare di intensità nel tempo, risultano misurabili su basi oggettive; consentono di esplicitare relazioni causali che per loro natura sono tipicamente di breve periodo e che sono governabili sia dal responsabile del centro di costo a monte che dal responsabile del centro di costo a valle (ricevente i costi allocati) entrambi i responsabili possono così controllare il valore di costo mediante la manovra dei rispettivi assorbimenti. Dal momento in cui tali indicatori sono espressivi di un rapporto che si esplica nel breve termine, l’allocazione tramite tali vettori si rivela pienamente efficace nel caso il coefficiente cui si fa ricorso sia calcolato su una stima dei costi del centro cedente e del suo volume annuo di attività (normalizzazione dei costi)
Indicatori di Attività: riflettono il volume di attività del centro di costo acquirente il servizio interno e si basano sull’ipotesi che al crescere di tale volume cresca anche la quantità di servizio offerto dal centro di costo cedente (data l’impossibilità di quantificare i servizi prestati). Si rivelano perciò adeguati se i servizi offerti dal centro di costo intermedio non sono misurabili su basi oggettive ma tuttavia i costi ad esso relativi risultano influenzati dalle variazioni di attività dei centri di costo utenti. In tale circostanza i responsabili dei centri utenti non sono in grado di governare nel breve termine i relativi assorbimenti (facoltà che è propria dei soli responsabili dei centri cedenti)
Indicatori di Capacità: risultano utili nei casi in cui il servizio offerto dal centro di costo cedente è un servizio di capacità, ovvero la disponibilità “strutturale” di un qualche tipo di infrastruttura a prescindere dal suo consumo effettivo. Utilizzando tali indicatori si rende necessaria l’allocazione dei costi ai centri coinvolti di una quota di costo predeterminata in sede di budget