Niente vantaggi dal calo petrolio. La (debole) ripresa solo dal 2019

Il mini-barile non ha spinto i consumi. Colpa dei problemi del sistema
bancario. Ma pure della frenata dei mercati emergenti.
Che hanno azzerato i benefici dell’oro nero ai minimi storici. 

Intervista a Matteo Di Castelnuovo, Direttore del Master Mager energia e ambiente dell’Università Bocconi di Milano

di Nadia Azani

Per anni abbiamo sperato che il prezzo del petrolio calasse pensando che fosse la panacea per tutti i mali della nostra economia e adesso che finalmente il calo c’è stato, ed è stato importante, nessuno si è accorto dei benefici. Le motivazioni? Più d’una come al solito.
Iniziamo con il dire che dopo aver lasciato sul terreno quasi il 70% dal giugno 2014 a fine gennaio 2016, il costo del barile è tornato a salire e ora viaggia intorno ai 44 dollari. Ma secondo gli esperti, il mercato resta volatile ed è inutile farsi grandiillusioni: “Difficilmente si tornerà ai livelli pre 2014”, dice Matteo Di Castelnuovo, Direttore del Master Mager energia e ambiente dell’Università Bocconi di Milano. “Guardando ai fondamentali e parlando con gli operatori, non mi attendo un incremento del barile oltre i 100 dollari per il prossimo futuro. A meno di particolari choc difficilmente prevedibili, tipo una nuova tensione tra Iran e Arabia Saudita o un nuovo scenario geopolitico che mandi in tilt i mercati e faccia schizzare il prezzo alle stelle”.
Del resto la debole ripresa economica dell’area Euro finora registrata, i consumi ingessati e il forte rallentamento dell’economia cinese frenano la domanda di greggio su cui pesa anche un processo di de-carbonizzazione in corso.

Troppo petrolio sul mercato


Anche l’andamento dell’offerta non aiuta. C’è troppo oro nero sul mercato e non tanto per il ritorno sulla piazza dell’Iran “il cui impatto, al momento, è più che altro psicologico, visto che l’ex Paese dello Scià ha grossi problemi economici e logistici da risolvere prima di far partire una produzione veramente impattante”, continua Di Castelnuovo.
A far lievitare l’offerta negli ultimi anni è stato piuttosto lo sviluppo negli Usa della tecnologia fracking, che ha consentito di estrarre petrolio anche da formazioni rocciose prima non considerate produttive. Il fenomeno del cosiddetto shale oil, infatti, ha permesso agli Stati Uniti di toccare il picco di produzione di 9,6 milioni di barili al giorno nell’aprile 2015, spinta dall’abbassamento progressivo dei costi di lavorazione. Così, sebbene il Medio Oriente sia ancora il principale produttore, lo shale oil ha reso Washington un nuovo polo di produzione, tanto che il Congresso americano nel dicembre 2015 ha deciso di rimuovere il divieto di esportare petrolio statunitense in vigore da più di 40 anni.

Il mini-barile in Ue non spinge i consumi


Offerta alta, domanda bassa, dunque prezzi del barile in discesa libera. Ma il trend tanto atteso dagli industriali non ha avuto effetti positivi sui conti economici delle imprese e di conseguenza sull’andamento del Pil dei vari Paesi. Per lo meno non su tutti. Mentre le nazioni produttrici e consumatrici di greggio, come gli Usa, sono riuscite a tenere botta, quelle solo consumatrici hanno accusato il colpo in maniera pesante. Ne sono un esempio i Paesi dell’area Euro, dove si è registrata solo una debole ripresa dei consumi, nettamente inferiore alle attese. “Fatta eccezione per il Regno Unito, dove c’è stata una maggiore fiducia nella ripresa economica da parte dei risparmiatori”, precisa Di Castelnuovo.
Un trend che ha sorpreso gli economisti internazionali anche perché, in base a un vecchio paradigma economico del Fondo monetario internazionale (Fmi), a ogni 20 dollari di discesa del prezzo del petrolio, avrebbe dovuto corrispondere un incremento del 30% del Pil mondiale.
Cosa non ha funzionato? “L’ipotesi che va per la maggiore è che in passato il calo del prezzo petrolio era accompagnato da un taglio dei tassi di interesse da parte delle Banche centrali. Operazione che questa volta non è avvenuta anche perché i tassi di interesse sono già molto bassi”, spiega il docente della Bocconi.

Le aziende manifatturiere in sofferenza


In un quadro così complesso, le aziende che si aspettavano di riprendere fiato con il prezzo del greggio ai minimi storici si sono trovate spiazzate. Non solo perché i consumi interni non hanno dato segno di vita, ma anche perché sui principali mercati internazionali di sbocco per le loro merci la situazione si è man mano deteriorata.
Basti pensare al rallentamento del mercato cinese, uno dei principali per le nostre aziende manifatturiere, per avere un’idea. In base a quanto hanno confermato le autorità di Pechino, nel 2015 la crescita del Pil è stata del 6,9% e le previsioni fatte dal Fmi dicono che nel 2016 sarà del 6,5%. Nulla di drammatico sulla carta, ma il problema va oltre i numeri ed è nelle trasformazioni in corso nell’economia del Dragone. “Dalla manifattura ai servizi e dall’export ai consumi interni”, ha indicato Christine Lagarde, numero uno del Fmi. E sono solo le due principali.
Tutte le incertezze connesse si trasferiscono al mondo esterno attraverso i flussi di capitali e il cambio della valuta, che sta vivendo anch’esso una fase di cambiamento. Dopo essere stato per anni agganciato al dollaro, il renmimbi è ora agganciato a un paniere formato dalle monete dei Paesi con i quali la Cina ha i maggiori scambi commerciali. Il primo effetto è stata la svalutazione della valuta. Il cambiamento del modello economico e delle politichemonetarie e valutarie di Pechino ha fatto sentire già in maniera dirompente i suoi effetti sul prezzo delle materie prime, e quindi sui conti dei Paesi esportatori. E lo ha fatto anche sui profitti delle multinazionali occidentali che producono in Cina nonché su quelli delle imprese che esportano nell’ex Impero Celeste.

Le imprese che se la cavano meglio


Non tutte le imprese però sono state messe in ginocchio dal mini-greggio: alcune ne hanno in parte beneficiato come le aziende energivore europee e italiane ovviamente. È il caso di cementifici, cartiere, industria della ceramica, “quelle dove il costo energia è una componente rilevante del prezzo di produzione”, aggiunge Di Castelnuovo.
Ma sull’altro piatto della bilancia anche per queste imprese, come per tutti, ha pesato il diffuso sentimento che i prezzi bassi del petrolio siano il segnale di una ripresa che non arriva, con inevitabile impatto sulle Borse.

Le Major del petrolio piangono


Uno tsunami che ha travolto pure le imprese americane dello shale oil, già fortemente indebitate: basti dire che alla fine del 2015 erano 36 le società estrattive che avevano fatto ricorso al Chapter 11, la procedura fallimentare americana.
Le messe peggio, però, sono le major internazionali del settore Oli&gas. E per capirlo si può dare un occhio ai bilanci delle big del settore, che nel 2015 hanno visto i conti economici piegarsi come fuscelli al vento. A cominciare da Bp, che ha avuto una perdita di 5,2 miliardi di dollari. Seguono Shell con un utile a –80%, Chevron –76%, Exxon Mobile –51%, Total –18% e l’italiana Eni, dove il mini-greggio ha mandato i conti in rosso per 8,8 miliardi di euro.
Gli effetti della discesa del prezzo del petrolio si sono sentiti anche sui conti delle banche con in pancia Bond dei colossi Oil&gas. “Dal giugno 2014, quando il costo dell’olio è iniziato a scendere”, fa osservare Di Castelnuovo, questi istituti di credito hanno riportato perdite per 250 miliardi di dollari. E il valore delle azioni in Borsa delle 300 più grandi società Oil&gas a livello globale è sceso del 40% dal giugno 2014.
La reazione delle compagnie petrolifere più grandi a questo disastro? Limare gli organici, oltre che tagliare e ritardare i programmi di sviluppo. Non sono mancati poi quelli che hanno riformulato le loro strategie rinunciando o ritardando la messa in produzione di mega-giacimenti a favore di ampliamenti di campi già in produzione. Eni, invece, ha scelto di ridurre i dividendi pagati agli azionisti e di concentrare ulteriormente le sue attività nella ricerca ed estrazione degli idrocarburi (probabile, infatti, la cessione della chimica), mantenendo i livelli occupazionali correnti.

Per la ripresa c’è tempo


Tornerà a correre il prezzo del petrolio? La risalita dei prezzi, come detto, è già iniziata, ma secondo alcuni analisti, non si raggiungerà nuovamente un equilibrio sul mercato del petrolio prima del 2019. “Questo non significa che si tornerà ai livelli pre-crisi”, avvisa Di Castelnuovo. “Anche perché l’Arabia Saudita negli ultimi due anni ha dimostrato di essere più interessata a difendere le sue quote di mercato che non il costo (per altro senza riuscirci visto che ha perso quote in Paesi chiave come la Cina, dove la sua fetta di mercato è scesa dal 20 al 15% nel 2015). E lo ha fatto continuando a produrre mentre il prezzo calava con l’obiettivo di mandare in fallimento i competitor Usa. L’offerta più alta della domanda non può che influire negativamente sull’andamento del prezzo”. La principale preoccupazione degli economisti è che il costo ancora basso del petrolio rifletta una crescita economica ancora troppo debole.
La via crucis per le aziende europee e italiane, quindi, non è ancora finita. Anche se a condizionare il loro business non è solo la componente energia. “La fiducia dei mercati e la complessa situazione delle banche, elemento importante del quadro economico europeo, fanno il resto”, incalza il docente della Bocconi. “Il sistema bancario europeo, al momento, non è ancora nella situazione ideale per supportare le aziende. Basti dire che il valore azionario degli istituti di credito dell’Unione europea negli ultimi 12 mesi è sceso del 24%, rispetto al 10% del mercato in generale, nonostante le banche del Vecchio Continente siano molto meno esposte rispetto a quelle Usa sul settore energetico”. Insomma un cane che si morde la coda e che mette in evidenza il lato debole della globalizzazione specie in Europa.
Ma a detta degli esperti, il peggio dovrebbe essere alle spalle. “Per la seconda metà del 2016 ci si aspetta una debole ripresa dell’economia europea”, tranquillizza Di Castelnuovo. La crescita globale però sarà lenta. A tirare la leva del freno, oltre alle motivazioni dette sopra, anche le crisi geopolitiche, il terrorismo e il flusso di rifugiati, che aumentano le paure e riducono la fiducia. Senza contare che alla crescita mancherà il contributo dei Paesi emergenti e quello della Cina sarà inferiore rispetto al passato. A trainare saranno Ue e Stati Uniti, ma nessun Paese sarà una vera locomotiva in grado di fare da volano per tutti gli altri.

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FabbricaFuturo è il progetto di comunicazione rivolto a tutti gli attori del mercato manifatturiero (responsabili delle direzioni tecniche, imprenditori e direzione generale, responsabili organizzazione e HR) che ha l’obiettivo di mettere a confronto le idee, raccontare casi di eccellenza e proporre soluzioni concrete per l’azienda manifatturiera di domani.

Nasce nel 2012 dalla rivista Sistemi&Impresa come reazione alla crisi finanziaria del 2011. Negli anni il progetto è cresciuto significativamente, parallelamente alla definizione di politiche pubbliche in ambito industria 4.0 (Piano Calenda e successivi).
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