Qualità totale, per competere meglio: in ricordo di Alberto Galgano

Il 30 aprile è venuto a mancare a Milano, Alberto Galgano*, fondatore della Galgano & Associati Consulting. A 89 anni  è scomparso il Padre della Qualità Totale in Italia e della Consulenza di Direzione Italiana. Sistemi&Impresa lo ricorda pubblicando una sua intervista, scelta come copertina del numero di giugno 2007.

 

Aumentare la competitività delle imprese in uno scenario ormai globale. Questo il chiodo fisso di ogni imprenditore. Concentrato e focalizzato a guardare quello che succede al di fuori della propria realtà. E impegnato con ogni mezzo a combattere una concorrenza sempre più agguerrita. Una situazione che porta chi guida le aziende a guardare cosa succede fuori, senza concentrarsi abbastanza su quel che accade all’interno dei propri stabilimenti. E trascurando il fatto che, riorganizzando i propri processi interni, si potrebbe risparmiare fino al 10% dell’intero fatturato. Una bella risorsa, che potrebbe essere destinata sì alla crescita dell’azienda, all’innovazione di prodotto, alla conquista di nuovi mercati. Fantasie? Non proprio, se analizziamo come Toyota è diventata in pochi decenni il gigante che è. Allora, qual è il segreto? Montare sulle spalle dei giganti. Ce lo spiega Alberto Galgano, che è il padre della Qualità Totale in Italia. Ma lo diceva anche Isaac Newton, riprendendo una frase del mistico medievale Bernardo di Chartes.

 

Fare qualità. Cosa significa oggi, in Italia?

Il punto chiave da cui è necessario partire per affrontare questo tema è la competitività dell’azienda, che deve essere continuamente potenziata perché il mercato è molto mobile, ci sono aperture di nuovi Paesi e la concorrenza aumenta anno dopo anno. In questo contesto, le aziende devono essere sempre più competitive e per essere sempre più competitive devono fare in modo che i costi vengano abbattuti e i prodotti migliorati. Il concetto cui faccio riferimento nei miei libri riguarda la parte economica del fare qualità” e soprattutto la riduzione degli sprechi. L’attività dell’azienda si svolge in un contesto complesso di processi. È stato dimostrato che in questi processi il grado di efficienza è piuttosto basso, perché le aziende sprecano ogni anno il 10% del loro fatturato a causa dei processi che non sono efficaci ed efficienti. E questi sono i costi che noi chiamiamo della “non qualità”. Sono circa 40 le voci dei costi della non qualità nel settore industria e servizi che ho raggruppato nel mio libro Fare Qualità. Partendo quindi dal fatto che l’azienda presenta enormi sprechi legati ai costi della non qualità, noi suggeriamo l’applicazione del sistema Toyota. Un sistema che va al di là del semplice discorso sulla qualità. Si tratta infatti di un modello organizzativo di gestione che consente di aumentare la produttività e nel contempo di ridurre i costi della non qualità. Che sono una zavorra per tutte le aziende.

 

Come viene percepita in questo momento in Italia la qualità dal mercato?

La qualità si basa su due cardini fondamentali: la soddisfazione del cliente e la riduzione degli sprechi. Nel campo della soddisfazione del cliente le aziende sono abbastanza agguerrite, perché si confrontano con il mercato. Per quanto attiene invece la riduzione delle deficienze, qui non c’è possibilità di confrontarsi; quindi le aziende, non avendo riferimenti, sono meno portate a intraprendere azioni concrete.
Il vero problema è che in quest’area manca il confronto. Le aziende devono fare il meglio per quanto riguarda i prodotti da offrire al mercato. Per quanto riguarda invece la gestione dei processi che servono a ottenere i risultati, non c’è confronto. C’è confronto sul prodotto e non sul processo e ci sono per questo meno stimoli per cercare di migliorare. E le aziende, su questo tema, non hanno la minima sollecitazione. Il fatto che la percentuale degli sprechi raggiunga il 10% del fatturato è molto significativo. Ma le aziende non sono aiutate ad affrontare percorsi che portino alla riduzione degli sprechi. Per ridurre gli sprechi è necessario infatti applicare il metodo scientifico, quindi seguire Galileo. Purtroppo però, le università non trasmettono alle aziende con sufficiente enfasi l’importanza di questo metodo nella gestione. Il vero problema, secondo me, è che mancano le basi perché le aziende possano agire e ridurre questi costi che rappresentano gli oneri dei processi difettosi.
Ritengo importante una frase che cito nel libro Fare Qualità e che si riferisce alle persone che lavorano in Toyota: “Noi siamo persone di media capacità, che gestiscono processi brillanti. I nostri concorrenti sono persone brillanti, che gestiscono processi difettosi”. [Un concetto, quest’ultimo, che in Italia si potrebbe applicare all’intero sistema paese: persone brillanti che gestiscono processi difettosi, Ndr]. E questi concorrenti brillanti, quando hanno un problema, cosa fanno? Assumono persone ancora più brillanti. Questo è il punto chiave: i nostri imprenditori non prendono proprio in considerazione il tema dei processi brillanti. Tanto che abbiamo questi costi esorbitanti legati alla non qualità, perché parlare di oltre il 10% è uno spreco pazzesco. Se un’azienda fattura 50 milioni di euro, il 10% sono 5 milioni che vengono buttati via e che invece potrebbero essere un profitto, oppure permetterebbero di mettere sul mercato prodotti a prezzi più bassi.

 

Manca quindi il desiderio di fare cultura sul tema? Sono le università che dovrebbero trasmettere questo valore? Dov’è il problema?

Per ridurre gli sprechi bisogna applicare il metodo scientifico, quindi il sistema Toyota, e applicare la “caccia allo spreco”. Purtroppo, ci manca completamente questa cultura. La cosa grave è che non seguiamo Galileo, non percepiamo la valenza dei suoi insegnamenti. Il sistema Toyota è invece basato su queste due colonne: qualità totale e caccia agli sprechi. Dobbiamo riconoscere che abbiamo una carenza. Le aziende cercano di darsi da fare, ma si muovono molto lentamente. Secondo le nostre stime meno del 10% delle aziende ha applicato quello che nel 1990 gli americani hanno battezzato come “lean. Che altro non è che il sistema Toyota.

 

Secondo lei cosa si dovrebbe fare per uscire da una situazione così critica?

Sollecitare le università a parlare di questo metodo scientifico, insegnarlo. Pensi che nell’headquarter della Toyota a Tokio ci sono appesi tre grandi ritratti: il primo del fondatore, il secondo dell’attuale presidente e il terzo ritratto è di William Edwards Deming, colui che ha portato l’approccio scientifico alla gestione dei processi (vedi foto). Pensi al valore che si è dato a questa persona: un americano ormai scomparso, che viene messo allo stesso livello del fondatore e del presidente di un’azienda giapponese. E fanno questo perché hanno capito che il contributo di Deming li ha fatti diventare i primi del mondo. Oggi Toyota vale il doppio di quello che valgono General Motor, Ford e Chrysler. Toyota ha caratteristiche formidabili e non diamo il peso giusto a queste caratteristiche, perché la classe imprenditoriale è completamente cieca.
La cultura della lotta agli sprechi non è ancora interiorizzata. C’è bisogno di un grosso lavoro per fare cultura su questo tema. Le aziende andrebbero sensibilizzate di più, anche dalle università, che dovrebbero trasmettere con più forza questi messaggi.

 

Come mai secondo lei tutto questo non succede, come mai anche a livello accademico non viene dato più risalto a questo sistema, che ha fatto sì che Toyota diventasse il gigante che è?

Dice bene Tito Conti, che è il presidente dell’International Accademy for Qualità, gruppo dei massimi esperti della Qualità a livello mondiale, con la frase che cito nel mio libro Fare Qualità: Il principale motivo della difficile accettazione della Qualità Totale fu che essa rappresentava, dal punto di vista concettuale, una vera discontinuità rispetto al passato. I professionisti della qualità in generale non la compresero… Quelli che la potevano comprendere, i manager e gli accademici, provavano un’istintiva crisi di rigetto di fronte alla pretesa che la qualità potesse divenire una variabile competitiva, che la Cenerentola tecnica potesse entrare nei palazzi dove si dibattevano i temi delle strategie delle imprese”. I sistemi normati hanno poi polarizzato l’attenzione delle aziende. Ma qui si tratta proprio di cambiare mentalità.

 

Il problema non è forse che la certificazione di qualità viene vissuta ancora come un qualcosa che deve essere fatto per forza, una sorta di fastidioso obbligo…

Vede, io mi sento un po’ come Don Chisciotte contro i mulini a vento… Perché non c’è cultura. I risultati, infatti, dimostrano l’efficacia del sistema. Conti dice bene che gli accademici stentano a riconoscere l’efficacia della qualità. Il dato fondamentale è questo. Nel 1980 il mondo occidentale, soprattutto l’America, si è trovata obsoleta in tutti i settori industriali importanti. Questo impero che nel 1945 aveva sconfitto il Giappone, nel 1980 si trovò superato da questo paese in tutti i settori principali. Come mai l’America, un Paese leader, ha visto la produttività delle sue aziende diminuire rispetto alla produttività delle aziende giapponesi? Perché? Perché in Occidente non esiste la cultura della qualità. A riprova di questo, Deming fu costretto ad andare in Giappone per farsi ascoltare. Poi l’America ha dovuto riconoscere la propria inferiorità e allora tutti sono andati in Giappone a constatare con i propri occhi i risultati di quanto Deming aveva inutilmente cercato di far capire all’America.

 

Dice William Edwards Deming: “La Qualità viene realizzata nella sala del Consiglio di amministrazione e non nei reparti o negli uffici”. Ci può spiegare questa frase?

Questo è il punto chiave. Perché se le università che dovrebbero essere i nostri fari hanno le luci spente, anche per gli imprenditori diventa difficile guardare lontano. La qualità è stata sempre percepita con un’ottica errata. Nella nostra realtà industriale, l’imprenditore che ha quattro o cinque tecnici che si occupano di qualità, si sente già illuminato. Mentre invece la qualità è il punto chiave dell’azienda e deve essere percepita dall’imprenditore come una sua principale responsabilità. E come leva per aumentare la competitività. Riducendo gli sprechi.

 

Forse è proprio questo il punto: la qualità non viene percepita come un fattore di aumento della competitività…

È tragicamente così, nonostante tutti noi abbiamo davanti agli occhi l’esempio dell’America, che si è lasciata superare dal Giappone. Nel mio libro ho citato i settori dove l’obsolescenza è più marcata: tessile, acciaio, macchine utensili, robot, automobili e moto, costruzioni navali, semiconduttori, televisori, macchine fotografiche e fotocopiatrici. Da noi sono stati fatti i Circoli della Qualità”, iniziative realizzate dagli operatori che sono rimasti dei casi isolati. Ma è proprio questo l’errore, perché la Qualità è un concetto che deve essere interiorizzato dall’imprenditore. Perché la qualità si fa dall’alto, nel Consiglio di amministrazione. Secondo me, è davvero una lotta contro i mulini a vento. C’è sì qualche imprenditore illuminato, come Pasquale Pistorio – past president di ST Microelectronics per esempio, che ha preso coscienza di questo tema. Ma la cui voce non è sufficientemente ascoltata.

 

In un suo libro lei si domanda perché l’industria italiana non progredisca. Che risposte si è dato?

Le aziende si danno da fare per innovare, ma il mio discorso si riferisce ai processi. Le aziende innovano, per esempio, i prodotti, perché avendo lo stimolo esterno di un mercato vivace, gli imprenditori reagiscono. Ma se prendiamo in considerazione gli aspetti interni, di cui non si hanno riferimenti o l’imprenditore capisce, o non si muove nulla. Per quanto riguarda l’innovazione di prodotto, le aziende hanno riferimenti e innovano; ma quando parliamo di metodo scientifico legato ai processi interni, di caccia agli sprechi, ci riferiamo a fenomeni interni, per cui è difficile fare paragoni con altre aziende. Si comincia a fare qualcosa anche in Italia in questo senso. In Veneto, per esempio, c’è una lodevole iniziativa di un gruppo di imprenditori, che con il Cuoa (la prima Business school del Nord Est, Ndr) hanno creato un master sulla “lean production; per cui azioni, seppur isolate, ci sono. Noi realizziamo un Master in collaborazione con il Politecnico, ma non è seguito da una massa critica. Non c’è sufficiente sensibilità. Un timido segnale si può considerare il successo del mio libro Il sistema Toyota, che è stato venduto in 15mila copie. Ma la strada è ancora lunga. Perché finché le università non saranno portabandiera di questo movimento, mancheranno le basi per aiutare le aziende.

 

Gli strumenti per far progredire le aziende sono molto semplici, devono solo essere applicati…

Si devono attivare sistemi semplici, perché il Sistema Toyota è semplice, e arrivare a produrre il miglioramento continuo. Come descrivo nel mio libro: “Non è sufficiente l’applicazione delle tecniche, ma è necessario mettere in atto un sistema manageriale ricco, che trova riferimenti in grandi personalità del mondo occidentale: Galileo, Michelangelo, Socrate, Aristotele, Leonardo, Cesare e Napoleone”. Perché il Sistema Toyota ha attinto contributi che ci derivano da queste grandi personalità del passato.

 

Il modello Toyota come può essere importato in una piccola-media impresa?

Innanzitutto, è fondamentale ricorrere a esperti in grado di avviare il sistema e i risultati si ottengono anche rapidamente. Un esempio? Una piccola azienda di 80 persone di Spoleto, Tecnokar, che fa rimorchi e ha ottenuto risultati sorprendenti, raddoppiando la produttività. L’azienda aveva 60 persone; ora sta crescendo, ha aumentato profitti, fatturato e ha rifatto lo stabilimento. Ecco, questo è l’esempio di una piccola azienda che con il Sistema Toyota è diventata una realtà importante.

 

Ci troviamo in questo caso di fronte a un imprenditore illuminato?

Certo, per forza. È chi guida l’azienda che fa la differenza. C’è bisogno di guardare lontano, bisogna salire sulle spalle dei giganti, come diceva Newton. La situazione non è rosea, perché le aziende sono troppo focalizzate a risolvere problemi come la competitività e la delocalizzazione prt esempio, che sono certamente temi cui dedicare grande attenzione, ma senza trascurare i problemi interni. Purtroppo, mancano i riferimenti e non c’è la spinta a migliorare tutto quanto attiene alla gestione. Anche se l’esempio del Veneto è certamente un segnale positivo. Appoggiati dal Cuoa, dicevo prima, gli imprenditori hanno fondato un club. Ma questo resta comunque un caso isolato. Ed è un peccato, perché oltretutto le risorse reagiscono positivamente a questo programma, essendo coinvolte nel miglioramento dell’azienda. Diventano parte attiva del miglioramento. Un altro esempio eclatante di efficacia del sistema è costituito dalla Porsche, che nel 1992 stava fallendo e con l’applicazione del Sistema Toyota, dopo tre anni, ha visto triplicare la produttività. Nel libro di Womack e Jones, Lean Thinking. Come creare valore e bandire gli sprechi, si riporta una tabella in cui si spiega come è possibile aumentare la produttività. C’è però una resistenza formidabile a intervenire sui processi.

 

Nel libro lei parla dello “stato zero difetti”. Uno stato che si raggiunge applicando il sistema Toyota. Dovrebbe già essere una buona leva…

Sì, l’imprenditore si confronta sul terreno della concorrenza, ma per quanto riguarda la gestione dei processi non ci sono riferimenti, non ci sono stimoli. Se si intraprende un certo percorso, è solo grazie alla lungimiranza dei singoli imprenditori.

 

Non sarà anche un problema di diffidenza? Non sarà che l’imprenditore mal sopporta che qualcuno dall’esterno si intrometta nei processi interni?

Questo ritardo è generale, riguarda anche l’America. Perché una cosa è dire di aver fatto un po’ di lean. Altro è essere intervenuti sui processi.
Molte aziende ritengono di aver applicato la Lean Production, ma sono ben lontane da questo traguardo. Cito il caso di un’azienda americana che ha vinto il premio Shingo. Questo premio viene assegnato alle aziende che hanno applicato con successo la Lean Production. A un Team di esperti della Toyota è stato permesso di intervenire in questa azienda per alcuni mesi. L’effettiva applicazione del Sistema Toyota ha ottenuto diversi risultati: aumento della produttività dell’83%, riduzione del Lead Time del 93%, riduzione delle scorte dei prodotti finiti del 90%. Questo dimostra che siamo di fronte a una situazione difficile e ci troviamo davanti a resistenze formidabili.

 

Come mai queste resistenze sono così forti? È proprio solo un problema culturale?

Le posso citare la ricerca del Politecnico di Milano, del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, sulla Lean manufacturing come leva competitiva. Il campione significativo di questa ricerca comprende 112 aziende. C’è del movimento. In Veneto, con l’aiuto del Cuoa, la situazione mi sembra più dinamica.
La frase che ho citato di Conti è importante, perché la qualità viene considerata al di fuori delle azioni strategiche di un’azienda. Conti, che è presidente dell’accademia mondiale della qualità, una persona di competenza insomma, ci spiega che la qualità deve rientrare nella strategia. C’è molta attenzione al recupero dell’efficienza, alla costruzione della leadership; tutte cose anche giuste, ma che non possono prescindere dall’applicazione del metodo scientifico.

 

Il Sistema Toyota tende a raggiungere lo stato zero difetti. Come si colloca il Six Sigma in questo scenario?

Toyota non applica il Six Sigma, perché già nel 1967 decise che avrebbe applicato il metodo scientifico a tutti i livelli. Il Six Sigma è nato nel 1987 in un’azienda in difficoltà, Motorola, 20 nni dopo che Toyota aveva deciso di applicare il metodo scientifico. Per salvarsi, il suo titolare introdusse in azienda un programma chiamato Six Sigma, caratterizzato dal forte peso rivestito dalla statistica. Sono due sistemi che non possono essere comparati. Il Six Sigma propone un approccio per cercare di ridurre i costi. Oggi, soprattutto in America, si parla di Lean Sigma. Toyota applicava già la statistica; quindi, non ha bisogno di questo approccio.
La differenza sta nel fatto che con il Six Sigma i problemi si risolvono per l’80% attraverso la statistica e per il 20% con il pensiero, mentre per il sistema Toyota è l’esatto contrario: i problemi si risolvono all’80% con il pensiero e per il 20% con gli strumenti.
Cito il caso di un giornalista che, in visita allo stabilimento Toyota di Georgetown presso la linea di assemblaggio e fissaggio delle porte, mise in risalto l’assenza di robot, che invece aveva visto negli stabilimenti dei concorrenti. Si chiedeva se questo non riducesse l’efficienza dell’impianto. Il Direttore spiegò che i robot hanno limiti: non sono capaci di pensare e provare emozioni. Era importante per l’operatore del processo di installazione delle porte comprendere cosa volesse il cliente ed eseguire la mansione tenendo in mente le esigenze del cliente. Come dovrebbe essere il tocco della porta quando viene chiusa? Che suono dovrebbe avere? Un robot non può essere programmato su queste cose. Mentre i costi del lavoro possono essere più elevati, il vantaggio complessivo aumenta, essendo la capacità di “sentire”, propria dell’uomo, uno dei benefici più significativi.
Quindi l’operazione si fa a mano, per assicurarsi che il montaggio sia perfetto e il cliente contento. Tutto questo costa un po’ di più, ma qual è il risultato? Che oggi, in America, le macchine più vendute sono Toyota. E la Prius è la macchina del futuro, che cambierà il modo in cui si guida.

 

Ho assistito a un incontro in cui due dirigenti americane del Virginia Mason Medical Center di Seattle hanno argomentato come il sistema Toyota, oltre a ridurre gli sprechi in sanità, può salvare vite umane. Può questa essere una leva per diffondere il sistema Toyota in sanità?

Certo che può essere una leva, ma ci vorranno anni. I nostri sistemi ospedalieri si muovono lentamente. Noi ci crediamo e sono diversi anni che portiamo esempi dei risultati che hanno ottenuto le strutture sanitarie che hanno applicato il sistema. Il sistema “zero difetti”, applicato alla sanità, porta benefici direttamente al paziente, perché la possibilità di commettere errori diminuisce. Nella sanità, come negli altri settori, deve maturare una nuova consapevolezza. Per creare, concretamente, un sistema “zero difetti”. Non solo per impedire gli errori. Ma anche per crescere di più.

 

* Alberto Galgano è stato Presidente del Gruppo Galgano, società di consulenza a capitale interamente italiano che nel 2007 consolida la sua leadership con quarantacinque anni di attività. Il Gruppo Galgano rappresenta una delle più affermate realtà italiane di consulenza di direzione al servizio dell’economia nazionale con forte orientamento ai risultati. L’approccio di ogni suo intervento consulenziale o formativo si basa infatti sullo studio approfondito della specifica realtà del cliente. Un approccio che permette di individuare e applicare soluzioni personalizzate alla cultura, alle persone, all’organizzazione e di ottenere risultati in tempi brevi. I servizi offerti dal gruppo al management dell’industria, dei servizi e della pubblica amministrazione coprono vasti settori della consulenza di direzione e della formazione manageriale.
Galgano è stato per quattro anni presidente della Feaco, la federazione che riunisce le associazioni europee delle società di consulenza. Nel 1997 gli è stato conferito il premio internazionale Akao per i suoi contributi nel campo della Quality Function Deployment. È stato autore di numerosi libri tra cui il best seller, tradotto in Spagna e Stati Uniti, La Qualità Totale (Milano 1990). Ha pubblicato, tra gli altri, Perché l’industria italiana non progredisce (2005), Il Sistema Toyota per la Pa. Ridurre gli sprechi e migliorare la qualità negli Enti pubblici (2006) e, con Cristina Galgano, Il sistema Toyota per la sanità. Più qualità meno sprechi (2006).

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