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Separare proprietà e governance. E conquistarsi la fiducia

| FabbricaFuturo |

Intervista a Filippo Girardi Presidente Midac Batteries

Genero del fondatore dell’azienda, Filippo Girardi è riuscito ad affermare in azienda il suo stile di leadership e a farla crescere nello scenario internazionale. In questa intervista ci racconta come dovrebbe avvenire l’ingresso di un familiare all’interno dell’azienda. Ma, soprattutto, cosa fare dopo. Perché l’azienda continui a crescere e non resti vittima di conflittualità che poco hanno a che fare con la crescita del business.

 

Filippo Girardi, Presidente Midac Batteries
Filippo Girardi, Presidente Midac Batteries

Partiamo, nelle nostre rifles­sioni, dalle difficoltà che incon­tra un componente della fami­glia al suo ingresso in azienda. Come fare perché questo non generi conflittualità?
L’ingresso in azienda di un com­ponente della famiglia deve essere sempre correttamente pianificato e comunicato.  In genere, un familiare incontra più difficoltà nell’inserimento in azien­da, rispetto ad un profilo estraneo, per due motivi principali: innanzi­tutto perché si deve scontrare con la diffidenza dello staff dirigenziale in essere e poi perché le persone legate alla famiglia proprietaria vengono a volte percepite dall’interno come poco meritevoli del nuovo incarico.  Per queste ragioni, è neces­sario pianificare strategicamente l’ingresso di un familiare in azienda tenendo anche presente il nuovo stile di leadership e della sua  coerenza con il modello organizza­tivo esistente.

Ci racconta il suo ingresso nell’azienda di famiglia?
Le mie capacità professionali si sono fondate su un’esperienza manageria­le, in cui ho imparato a ragionare per obiettivi stabiliti, all’interno di una so­cietà americana, il gruppo Emerson, dove ho anche sviluppato le principali skills che ancora oggi utilizzo per fare il mio lavoro.  Quando sono entrato in Midac ho dovuto adeguare quanto imparato alla realtà di un’impresa a carattere familiare modificando progressi­vamente il modo di pensare e operare. Da allora molto è cambiato e oggi operiamo credo con grande competen­za ma in modo estremamente diverso da dove siamo partiti.

E com’è stato accolto?
Con grandi resistenze da parte dello staff dirigenziale in essere, inoltre la mancanza di deleghe formalizzate mi impediva di ottenere la coopera­zione dei miei collaboratori.  Di fatto, sono stato inserito in azienda senza avere alcun titolo ufficiale, ave­vo ricevuto il tipico input di famiglia: “abbiamo bisogno che tu ci sia”. E così in un primo momento, sono en­trato in punta di piedi per capire cosa si potesse fare per migliorare. Pensa­vo di trovare uno spirito collaborati­vo e invece ho trovato muri altissimi da parte dello staff dirigenziale. Ho cercato di apportare il mio con­tributo in modo umile, offrendo suggerimenti che sistematicamente venivano ignorati nonostante fossi consapevole che le mie indicazio­ni avrebbero potuto dare vantaggi competitivi all’azienda.  Ma non venivano accolti. Il voler perseguire ad ogni costo le attività migliorative individuate senza il con­senso dello staff aziendale, avrebbe messo in difficoltà la consolidata rela­zione tra proprietà e dirigenti, maga­ri con il rischio di incrinare il legame tra due fratelli fondatori.  Ho compreso che il mio inserimento era avvenuto in modo non corretto e forse prematuro e, per evitare il collasso organizzativo, sono uscito dall’azienda.

Poi cosa è successo?
A distanza di due anni mi hanno richiamato. In effetti si stavano ve­rificando molte delle condizioni da me previste e quindi le mie tesi sono state riconsiderate.

E lei a quel punto come ha reagito?
Ho provato soddisfazione, e quindi chiarito subito che il mio nuovo in­gresso si sarebbe realizzato solo a due condizioni: prima quella di avere un rapporto formalizzato come AD con tutte le deleghe di ordinaria Ammi­nistrazione, seconda quella di poter operare cercando di creare condivi­sione, ma senza essere vincolato dal giudizio delle seconde linee (lo staff dirigenziale esistente), e in modo da poter valutare il lavoro svolto solo sul­la base dei risultati raggiunti. Non avrei più tollerato che i pregiu­dizi delle persone creassero alcuna interferenza o rallentamento ai nuo­vi piani d’azione e alle nuove scelte d’investimento.

Quante sono le persone all’in­terno della vostra azienda?
Quando sono arrivato erano 150, oggi siamo 400.

Un bel salto… In quanto tem­po?
In undici anni.

Cosa ha significato uscire e poi rientrare dall’azienda per lei?
Il mio rientro è coinciso con un profondo cambio gestionale. Ma quanto è accaduto credo sia da leggere positivamente. Il fatto di ritornare ha significato confermare delle scelte fatte precedentemente. E al mio rientro ho voluto essere nelle condizioni di poter cambiare i paradigmi esistenti, sempre nel ri­spetto delle tradizioni. Io non sono un amante delle rivoluzioni, ma se devo affrontare una guerra voglio avere tutte le armi che ritengo indi­spensabili per vincere.

Ecco, di questi tempi, come ci si arma nel modo giusto per vincere una guerra?
Devi avere le deleghe e la piena fi­ducia dei soci, del management e quindi di tutti i collaboratori. Inol­tre è fondamentale la rapidità del processo decisionale. Se non pos­siedi queste premesse, è impossibile perfino cominciare.

E anche un buon bagaglio di competenze, immagino…
Questo è un prerequisito essenziale, ma le competenze bisogna anche sa­perle sviluppare. Dopo 5 anni duran­te i quali l’azienda aveva iniziato una nuova fase di espansione, ho deciso di partecipare al master del CUOA per imprenditori: vedevo che l’azien­da era diventata più grande di me e io mi sentivo inadeguato di fronte a quella crescita. Ho voluto anch’io migliorare la mia cultura manage­riale e adeguare le mie capacità alla nuova dimensione che l’azienda ave­va assunto. Ritengo che sia importante per il vertice ‘allontanarsi’ un po’ dalla sua società e dal contesto in cui la stes­sa opera, per cambiare prospettiva e vedere il business da un’angolazione differente.  Anche i dirigenti che con me colla­borano sono stati formati con corsi di aggiornamento e specialistici. In azienda facciamo formazione con­tinua e da 4 anni abbiamo un coach di direzione.

La sede Midac a Soave in provincia di Verona
La sede Midac a Soave in provincia di Verona

Cosa significa innovazione per lei?
Per me innovare significa cambiare per migliorarsi, cercare un punto di vista inedito per l’azienda. Quando si parla di innovazione, infatti, non ci si deve limitare all’innovazione di prodotto ma bisogna dar luogo ad un’idea che coinvolge l’azienda a 360°, quindi l’organizzazione, l’in­novazione di processo, di mentalità, di approccio alle problematiche, di rapporti con le persone.  Un imprenditore deve avere l’in­novazione nel suo dna, se vuol fare questo mestiere! Per essere leader nel cambiamento, devi avere chiaro il concetto che ogni risultato rap­presenta un punto di partenza e non un punto di arrivo, altrimenti stai perdendo tempo.  Rischiare per affrontare una sfida è nel dna dell’imprenditore e il cam­biamento dovrebbe essere un pas­saggio naturale.

Seguendo questa logica, come si inserisce in tutto questo il passaggio generazionale?
Si tratta di un cambiamento che va affrontato gradualmente. Io stesso mi sto occupando della mia succes­sione all’interno dell’azienda. Oggi ho 45 anni e ho meno energia di quando ne avevo 40 ma di più ri­spetto a quando ne avrò 50. Con il passare degli anni maturiamo espe­rienze, ma subentrano altre esigen­ze, altri interessi. Allora ci si deve preparare per cercare qualcuno do­tato della forza propulsiva necessa­ria a dare la linfa vitale all’azienda. Altrimenti il motore si spegne e si perde la spinta. E se questo accade, far ripartire il motore è molto dif­ficile.

Cosa fare per scongiurare questo pericolo?
Io la chiamo evoluzione continua. È importante che l’azienda sia sempre in cambiamento, in miglioramento costante. Da noi ogni persona in un ruolo chiave è affiancato da un gio­vane “delfino” che deve essere for­mato per sostenere l’attività.

Quanti sono i profili delle pri­me linee?
Da me dipendono direttamente due direttori vendite, un direttore finan­ziario, un direttore tecnico e un diret­tore di produzione. Poi ci sono alcune figure nello staff, tra cui il responsabi­le Ict e il kaizen manager.

E il direttore delle risorse uma­ne?
Qui non c’è. Abbiamo tra i nostri pro­grammi l’inserimento di un respon­sabile delle risorse umane ma fino a ora siamo stati capaci di impostare il lavoro lasciando che ognuno fos­se responsabile del proprio team. Io propongo ai miei collaboratori diretti le attività di formazione che ritengo in linea con lo sviluppo aziendale. Di base c’è uno scambio bidirezionale ma poi ognuno ha la responsabilità dello sviluppo della propria area.

Quali le difficoltà più grandi?
Coordinare le persone. Anche se ognuno deve essere in grado di con­quistarsi un proprio grado di leader­ship. Bisogna saper costruire un team che sia in grado di portare avanti il la­voro. In questo la decisione di sposare la cultura lean ci sta molto aiutando, Bisogna condividere il modo di lavo­rare, comprendere l’interdipendenza tra i ruoli professionali, e questo è un lavoro che stiamo facendo, uti­lizzando anche le balance scorecard, un sistema che ci consente di percepire correttamente gli andamenti delle performance aziendali.  Questi aspetti non sono sempre tra­sparenti agli occhi del sistema orga­nizzativo, soprattutto per chi viene dalle aziende di vecchio stampo organizzate con una struttura verticale. Invece è opportuno poter contare su un’organizzazione a matrice. Bisogna saper giocare sull’intercam­biabilità dei ruoli e sulla creazione di connessioni trasparenti. Attraverso questo esercizio stiamo cercando di lavorare sui punti di contatto.

Filippo Girardi all'interno di Midac
Filippo Girardi all’interno di Midac

Ci fa un esempio?
Se un venditore vende in modo co­erente rispetto al suo budget può facilitare il lavoro della produzione. Se l’obiettivo è abbassare i costi di produzione e le vendite avvengono in modo discontinuo, i costi di pro­duzione non si potranno mai diminuire.  Questi aspetti devono essere evidenti e trasparenti in azien­da e quando le persone com­prendono queste dinamiche cominciano anche a performa­re meglio. Questa è la mia espe­rienza in azienda. Mi ritengo un facilitatore, poi il merito del successo è di tutta la squadra. I meriti sono delle persone che hanno lavorato al suo interno. Il mio è stato quello di avere conquistato la loro fiducia per essere supportato in modo puntuale e preciso; grazie a questa fiducia l’azienda ha così avuto la possibilità di crescere rapidamente, costruendosi una propria autonomia. Oggi MIDAC rappresenta un tassello importante del gruppo al quale apparteniamo, ed è fi­nanziariamente solida.

Secondo lei qual è il problema più grande che si trova ad af­frontare un imprenditore che guida un’azienda in questo mo­mento?
In generale, la fiducia. In questo momento storico il ruolo principale dell’imprenditore è quello di infon­dere fiducia ai propri dipendenti, nel presente e soprattutto per il futuro. In questa logica per il passaggio ge­nerazionale di un’azienda, ritengo sia ora di fare un netto cambio culturale nelle imprese di famiglia, separando governance e proprietà. Fare impresa nel nord est ha sempre significato per l’imprenditore- fondatore essere identificato come l’attore principale dell’impresa, colui che ha tutti i me­riti dello sviluppo dell’impresa. Ma queste competenze non si ereditano.  L’imprenditore è un innovatore d’istinto e non sempre i figli hanno questa caratteristica, ognuno ha le proprie inclinazioni.  Anche fare il socio è un mestiere im­portante che va insegnato. Spesso le seconde generazioni si cuciono ad­dosso il ruolo di punto di riferimento perché questa carica incarna il co­mando. Ma essere il socio significa anche stare un passo di lato e lasciare che la guida operativa dell’azienda operi con serenità e fiducia. Io ho cercato di portare avanti la società con questa logica, cercando sempre l’equilibrio tra soddisfazione dei soci e crescita dell’azienda.

Come deve fare un imprendi­tore per evitare che si creino squilibri tra proprietà e mana­gement?
La parola chiave è trasparenza ed è alla base di una forte condivisione. Tra management e soci ci deve esse­re sempre allineamento di intenti e obiettivi avendo chiaro i propri ruoli e incarichi.

C’è un proverbio che dice che marito e moglie non sono neanche parenti… il fatto di essere un ‘genero’ alle­via un po’ la sua posizione, per lei è più facile esercita­re il suo ruolo di manager, o no?
Io sono entrato nell’azienda per fare il mio lavoro. Punto.

Secondo lei che qualità deve avere un imprenditore?
Un imprenditore vincente deve avere tre caratteristiche principa­li: avere chiari i propri obiettivi, saper prendere decisioni e saper motivare i propri collaboratori. Il capitano di una nave sa sem­pre dove si deve andare e ha in mente in modo chiaro la meta. Inoltre, deve prendere decisio­ni, assumendosi le responsabili­tà e i meriti delle conseguenze – io ad esempio prendo decisioni tutti i giorni, e in ogni momen­to – e devo saper coinvolgere chi mi sta intorno ascoltando i loro sug­gerimenti perché l’apporto di ogni singolo componente del gruppo è fondamentale per la riuscita di ogni progetto.  Fare l’imprenditore è un mestiere bellissimo, ma difficilissimo che va esercitato con capacità e responsa­bilità, sviluppando sempre nuove e migliori competenze. Infine, un imprenditore deve avere cuore. L’amore per il proprio lavoro è imprescindibile dalla crescita e dal successo.