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Respira innovazione, assapora la magia

| FabbricaFuturo |

Intervista a Nello Pucillo, Direttore Generale della Galgano & Associati Consulting

Nello Puccillo
Nello Puccillo

Non ci possiamo sempre lamentare se arriviamo più tardi di altri Paesi. In Italia sono ancora poche le aziende che hanno riorganizzato i propri assetti alla luce di processi più snelli ed efficienti (all’incirca non più del 10%). Le metodologie del Lean management e del ‘Total Quality’ hanno insegnato a molte organizzazioni come eliminare gli sprechi alla luce di un semplice principio: il buon senso.
Parliamo con Nello Pucillo, Direttore Generale della Galgano & Associati Consulting e responsabile dell’area Industria, esperto di organizzazione nel settore della Produzione. Attualmente è impegnato nel seguire la transizione verso la Lean di alcuni grandi gruppi multinazionali presenti in Italia e di prestigiose medie aziende italiane, leader in Europa nei settori di riferimento.

La metodologia Lean sta rivoluzionando il modo di fare ‘Produzione’: in tempo di crisi diventa più una necessità che una filosofia?
L’approccio Lean affonda le sue radici nel concetto di processo aziendale esente da sprechi. Questo intendimento si mette in pratica recuperando la gestione di quelle poche leve che l’azienda è, di fatto, in grado di governare appieno. I margini si recuperano oggi sulla capacità dell’azienda di organizzare nella maniera più efficiente possibile i processi. Lean non è una moda, è una condizione necessaria, non sempre sufficiente, per mantenere posizioni di eccellenza sul mercato. È il buon senso eretto a elemento organizzativo.

La crisi sta insegnando qualcosa alle imprese?
Molte aziende hanno avuto la necessità di rivisitare i loro processi in modo da identificare le aree di miglioramento in una tipica reazione di difesa. Altre aziende hanno invece approfittato della crisi per ripensare le strategie di business affrancandosi dai vecchi schemi e focalizzando l’attenzione su temi cruciali.

Chi ha tratto più vantaggio da questa crisi?
La componente finanziaria è stata determinante. Abbiamo assistito a un fenomeno di polarizzazione dimensionale: i grandi sono diventati sempre più grandi, mentre l’offerta di coloro che non hanno avuto sufficienti capitali da investire si è riposizionata al ribasso. A soffrire di più oggi sono le medie aziende. È di fatto lo stesso fenomeno che caratterizza i consumi, ad esempio nel settore dell’automotive si vendono di più auto di fascia bassa e auto di alta gamma. In definitiva i grandi si avvantaggiano, i medi si riposizionano verso il basso accontentandosi di volumi d’affari ridotti.

Stiamo dunque assistendo a una scomparsa delle aziende di media dimensione?
Il tessuto industriale italiano è caratterizzato da una prevalenza di imprese medio-piccole. Se da una parte questo è stato il suo paracadute nel periodo di crisi, perché ha consentito di ammortizzarne gli effetti, oggi si rivela un handicap per il processo di rilancio. La leva dell’internazionalizzazione, fondamentale in questa fase, è sicuramente più difficile per quelle imprese che sono troppo piccole per farcela da sole.

Nello scenario della globalizzazione le aziende sono obbligate ad andare all’estero. Come ne usciamo?
C’è una strada. Atteso che la condizione affinchè un paese cresca presuppone comunque la ripresa della domanda interna, le aziende che soffrono meno sono sicuramente quelle che hanno una quota importante di fatturato (50-60%) sviluppata sul mercato estero. Il deficit dimensionale può essere colmato a patto che ci siano le competenze, la capacità di fare sinergia, di creare integrazione, di presentarsi magari come parte di una value proposition più articolata e non come singoli player. Occorre grande capacità di aprirsi per accedere a opportunità interessanti e condividerne i vantaggi.

Il tema della ‘Rete di imprese’ è di grande attualità. Perché in Italia queste iniziative non hanno successo?
L’azienda ‘aperta’ non è una realtà diffusa nel panorama italiano. Quello che manca ancora è un modello di business condiviso, con finalità chiare in termini di condizioni ‘win-win’ necessarie per accedere a mercati internazionali. Cina, Brasile, India sono mercati immensi. Là si richiede un’offerta di valore adeguata alle esigenze di quei paesi e, soprattutto, l’organizzazione di processi logistici robusti. Ci vuole un’idea di business che accomuni le diverse competenze e che metta in evidenza i vantaggi della sinergia di una rete di imprese.

Facciamo un passo indietro e torniamo al Lean. Come cambiano le organizzazioni? Un importante fattore abilitante è rappresentato dalla formazione. Ma nel Lean si parla di sperimentazione sul campo…
Uno dei temi di fondo di questo tipo di intervento in azienda è il cambiamento culturale. Attraverso la Lean le persone condividono un cambiamento che inizia dagli aspetti operativi colmando quel gap che c’è tra la formazione teorica e l’applicazione pratica. Metodologie innovative sono testate direttamente sul campo. Un bel passo in avanti rispetto alla formazione tradizionale.

In futuro le aziende che non adotteranno metodologie Lean e sistemi di Total Quality Management si troveranno fuori dal mercato. È d’accordo?
Esistono una serie di approcci manageriali che rappresentano l’ABC del management, elementi che devono entrare a far parte del Dna organizzativo e manageriale. Le aziende che non hanno ancora interiorizzato questi approcci sono le realtà a maggiore rischio in questo contesto che richiede meccanismi di competitività ‘fuori scala’ rispetto a quelli che eravamo abituati a considerare.

Tra il 2008 e il 2010 il 31,5% delle imprese ha introdotto un’innovazione di prodotto o processo (Fonte: Istat). Qual è il segreto dell’innovazione? Come si potrebbe definire un prodotto innovativo? E un processo innovativo?
Nell’azienda innovativa, in qualsiasi area si operi, si percepisce distintamente l’importanza del processo. Si ha la percezione chiara di come l’azienda abbia sempre in cantiere una serie di innovazioni: è quello che si respira al suo interno. La differenza quindi la fa il modo in cui l’organizzazione introduce una cultura e un processo sistematico di innovazione che non sia stimolato dall’esigenza di inseguire particolari contingenze di mercato. L’azienda innovativa è in grado di attivare un processo di innovazione in modo continuativo.

Come si fa ad “attivare un processo innovativo”?
Attraverso un approccio che prevede tre fasi che vanno parimenti organizzate con processi adeguati: l’importazione di competenze e informazioni dall’esterno, la preparazione di un terreno fertile su cui le persone siano in grado di ‘produrre’ idee innovative senza discontinuità, lo sviluppo e la effettiva realizzazione dell’idea.

Un processo che richiede tempo e sperimentazione. Che importanza ha l’errore in un processo innovativo strategico. Errare non significa solo sbagliare ma anche ‘vagare’, ‘scoprire’…
Nel percorso storico dell’innovazione le scoperte più importanti sono state costellate da insuccessi. Pensiamo a Leonardo e a Edison, per esempio. Sbagliare non ha influenza nella misura in cui il terreno fertile in cui crescono i frutti dell’innovazione è sempre alimentato. Un’idea non brillante, nata in maniera funzionale per un certo tipo di esigenza, può rivelarsi in futuro un’idea di successo pensando alla stessa realizzazione per un altro ambito di applicazione. Fa parte del processo.

Gettiamo ora uno sguardo al quadro italiano all’indomani dell’agenda Monti. Le banche non erogano credito e la tassazione è alle stelle. Per uscire dalla crisi finanziaria siamo entrati in crisi con il sistema paese…
La ricetta per uscire dalla crisi non è in mano esclusiva né del pubblico, né del privato. Il ‘Public procurement’, ossia la capacità dello Stato di indirizzare investimenti, è inferiore rispetto ad altri Paesi europei. Un intervento che rimetta in moto il volano è fondamentale. In questo scenario il privato deve fare la sua parte valutando con attenzione l’importanza strategica delle competenze e delle tecnologie che decide di sviluppare per il suo business. In un momento in cui l’acceso al credito è ridotto è quanto mai importante che le aziende investano in modo mirato le poche risorse disponibili.

Da dove ripartire se il tasso di disoccupazione è salito al 12,5%, oltre quattro punti sopra le stime ufficiali, promuovendo l’Italia al sesto posto più alto nell’Eurozona? (Fonte: Banca centrale) Secondo i dati dell’Istat il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 37,1%: record assoluto. Siamo in un tunnel?
Ci sono almeno due grandi partite in gioco. Da una lato la mancanza di politiche industriali chiare, dall’altra una cultura imprenditoriale che non ha fatto adeguati passi in avanti rispetto a elementi di contesto che sono cambiati. Interventi strutturali, come l’accesso a nuove opzioni di lavoro, richiedono una forte dose di creatività a livello legislativo. Mettere le basi per uno scenario più competitivo significa intervenire su costo dell’energia, costo del lavoro, burocrazia, flessibilità e occupazione.

Lei ha curato importanti progetti per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle Pmi. Un consiglio alle imprese che decidono di avviare un processo di internazionalizzazione?
Oggi non basta avere solo un buon prodotto, è fondamentale capire quali sono le esigenze del mercato di riferimento. Deroghe sulla qualità di prodotto e servizio non sono più accettate in nessuna parte del mondo. Servirsi di tecnologie ed organizzazioni adeguate al business globale è la grande sfida di domani per le piccole e medie imprese italiane.