Produzione industriale in Italia. Perché la crescita è invisibile

I dati statistici a metà 2017 hanno registrato uno scenario quanto meno contradditorio: la produzione industriale (fonte Istat) al 30 giugno 2017 risultava aumentata del 2,2% nel semestre e addirittura del 5,3% negli ultimi 12 mesi. Era lecito attendersi che a tale crescita, salutata con comprensibile e condivisibile soddisfazione dal Governo, corrispondesse un parallelo andamento dell’occupazione e, di conseguenza, dei consumi delle famiglie. Ciò però non è stato: sempre secondo l’Istat, nello stesso periodo (luglio 2016-giugno 2017) l’indice delle ore lavorate nelle imprese industriali con almeno 10 dipendenti (molto più significativo di quelli sull’occupazione) è rimasto sostanzialmente stabile, passando da 101,6 a 101,7 (base 100 nel 2010).

Conseguentemente non deve meravigliarci il dato sui consumi delle famiglie (così come valutato dall’Indicatore dei consumi di Confcommercio) cresciuti, sempre nello stesso periodo, solo dello 0,6%.

Proviamo a interpretare questi dati. All’aumento della produzione a parità di ore lavorate sembrerebbe corrispondere una crescita della produttività del lavoro. Sarebbe questa, se confermata, un’ottima notizia, in quanto gli ultimi anni hanno registrato un andamento piatto, quando non negativo, della produttività. Il risvolto negativo è però che all’aumentata produzione non ha corrisposto un parallelo aumento nelle retribuzioni del lavoro dipendente e quindi – di conseguenza – l’andamento ancora piatto dei consumi delle famiglie. Potremmo allora chiederci: se le famiglie italiane non consumano di più, a chi è stato rivolto l’aumento della produzione industriale?

La risposta è facile: evidentemente alle esportazioni che infatti, sempre secondo l’Istat, nello stesso periodo sono cresciute di ben l’8,2%. In definitiva, alcune imprese – quelle che esportano in maniera significativa – hanno ‘agganciato’ una ripresa dei consumi in buona parte globalizzata: non a caso la crescita delle esportazioni è pressoché uguale sia per il mercato dell’Unione europea sia per quello extra-comunitario. Probabilmente (ma occorrerebbero dati più di dettaglio per accertarlo) tali imprese coincidono in buona parte con quelle che sono state in grado di attuare innovazioni tecnologiche, o anche di razionalizzare la filiera commerciale e ottimizzare il marketing.

Indice di diffusione delle espansioni dei settori del manifatturiero e dei servizi (Anni 2001-16). Fonte: Istat, elaborazioni su dati dell’Indagine sulla produzione industriale e Rilevazione trimestrale sul fatturato
Indice di diffusione delle espansioni dei settori del manifatturiero e dei servizi (Anni 2001-16). Fonte: Istat, elaborazioni su dati dell’Indagine sulla produzione industriale e Rilevazione trimestrale sul fatturato

Dei due fenomeni esaminati – aumento di produzione senza crescita del lavoro e aumento della produzione senza incremento dei consumi – il primo ha caratteristiche estremamente globalizzate: la sostituzione del lavoro umano con la robotica e l’Intelligenza Artificiale, insieme con l’ingresso nel mondo della produzione industriale di centinaia di milioni di lavoratori – soprattutto in Cina e in India oggi, in Africa domani – conferisce al problema della ‘disoccupazione tecnologica’ (come la battezzò quasi un secolo fa Keynes) caratteristiche sempre più chiaramente strutturali, cui sarebbe necessario, e urgente, rispondere con soluzioni altrettanto globalizzate.

Il secondo fenomeno, invece, è più specificamente nazionale e vede la sua origine nell’inarrestabile (o quanto meno fino a oggi inarrestato) aumento della quota di remunerazione del fattore produttivo ‘capitale’ rispetto a quella del ‘lavoro’.

Essendo il primo molto più concentrato in relativamente poche mani rispetto al secondo, ciò comporta una parallela crescita delle diseguaglianze di reddito: anche questo è un fenomeno globale, ma in Italia esso assume, ormai da molti anni, livelli superiori a quelli dei principali partner europei. Il coefficiente di Gini, che misura il grado di diseguaglianza all’interno delle singole nazioni, nell’ultima rilevazione Ocse dispo-nibile (2014), registra per il nostro Paese il valore di 0,326, contro lo 0,297 della Francia, lo 0,289 della Germania, lo 0,274 della Svezia e lo 0,256 della Danimarca.

Ripensare la lotta all’evasione

È legittimo pensare che il coefficiente di Gini per l’Italia – già di per sé molto elevato – risulti sottostimato rispetto alla realtà, a seguito della macroscopica evasione fiscale che ci caratterizza. Se è vero infatti, che all’enorme entità del potenziale gettito sottratto al fisco contribuiscono un po’ tutti i settori dell’imprenditoria e del lavoro autonomo, è abbastanza ragionevole ritenere che una parte significativa di tali somme (l’ultima stima ammonta a 111 miliardi di euro all’anno) sia stata sistematicamente spostata all’estero – presumibilmente soprattutto dai ‘grandi’ evasori – il che significa che alla evasione di cui sopra andrebbe sommato, secondo l’Ocse, il mancato gettito per imposte non pagate sui rendimenti finanziari di tali capitali, per un valore annuo valutato tra i 49 e i 99 miliardi di euro.

evasione fiscaleL’alea nella stima è inevitabilmente ampia, in quanto si tratta di uno stock di capitale accumulatosi in molti anni di trasferimenti di fondi all’estero, ma che si tratti di importi enormi lo dimostra il fatto che il rientro di capitali, agevolato (a tassi scandalosamente di favore per gli evasori) da tre ‘scudi fiscali’ e una voluntary disclosure ha registrato in 15 anni un importo complessivo di ben 145 miliardi di euro, di cui solo 12 (il 4,7%) è andato al fisco. Ed è ragionevole pensare che in questi rientri sia confluita una quota fortemente minoritaria dei capitali complessivamente portati all’estero in anni, o decenni, di emorragia finanziaria. Se vogliamo che la (per ora) timidissima ripresa del sistema produttivo si consolidi in un parallelo aumento dei consumi, dobbiamo intervenire su una più equa distribuzione dei redditi prodotti.

È ben noto, infatti, che la propensione marginale al consumo (la quota marginale di reddito destinata al consumo invece che al risparmio) aumenta sensibilmente al crescere dei redditi individuali. Per esemplificare: se intercetta 1 milione di euro evasi e portati all’estero, lo stato incassa 430mila euro di imposte dirette che – attraverso la spesa pubblica, soprattutto se si privilegia il recupero del welfare e il supporto alla disoccupazione – si trasferiscono quasi integralmente nei consumi, aumentando la produzione e conseguentemente la remunerazione dei fattori produttivi, e così via, in un circolo virtuoso speculare rispetto a quello vizioso che ha indebolito la nostra economia negli ultimi anni.

La lotta all’evasione fiscale e alla fuga dei capitali non è quindi solo (si fa per dire) un obiettivo di giustizia sociale, ma anche un irrinunciabile fattore di effettivo sviluppo del sistema economico nazionale. Quando il Ministro Tommaso Padoa Schioppa dichiarò che “le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme con i beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l’istruzione e l’ambiente” fu oggetto di una quasi generalizzata irrisione. Egli però affermava una fondamentale verità, alla quale potremmo aggiungere che una tassazione corretta ed efficace è anche un fondamentale strumento di sviluppo economico: se i candi-dati alle prossime elezioni promettessero di razionalizzare il prelievo fiscale, combattere seriamente l’evasione e ottimizzare la spesa pubblica renderebbero un servizio al Paese; ma sembra che sia sempre più popolare promettere tagli alle tasse e strizzare l’occhio agli evasori…

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