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Fondo monetario internazionale, dopo 70 anni resta il sogno del perfect banking

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha subito alla sua nascita l’impronta di una fata cattiva: l’ortodossia economica.
Operativo dal 1947 con 29 Paesi soci – oggi 189 – con la missione di ristabilire l’equilibrio dei cambi e del commercio internazionale, evitare gli ostacoli alla crescita e al libero funzionamento del mercato. In ciò favorito dalla sua governance non democratica con il voto legato alla contribuzione, la quale, nella misura del 17%, assicura ancora oggi agli Usa il diritto di veto.

 

Il condizionamento più grave è però l’ortodossia del liberismo e del monetarismo della Scuola di Chicago. Il Fmi ha in più occasioni cercato di adattarsi alle nuove sfide, ma solo sul piano tecnico, non su quello della dottrina economica. È del resto convinzione dominante nella cultura economica l’idea che con il liberismo siamo alla fine della storia. Il compito che il Fmi ha cercato di svolgere in questi 70 anni è stato pertanto correggere le deviazioni dell’economia reale dall’ortodossia.

 

Anche l’eresia del deficit spending, avanzata da Keynes all’inizio del 900, non è stata una svolta epistemologica, ma un intervento congiunturale temporaneo. Lo stesso va detto per il quantitative easing di Draghi: bravissimo, controcorrente, ma non ‘drago’ dell’innovazione.

 

Così il Fmi, con il suo mantra di crescita, produttività, riequilibrio dei conti, pensa agli aggiustamenti a breve e trascura il collasso del sistema a lungo. È il miglior modo per preparare una catastrofe epistemologica, vale a dire lo svuotamento culturale della scienza economica della presente ortodossia, operato dalla storia, tutt’altro che alla fine.
Fmi come un ipotetico medico che abbandona il malato che non prende le medicine, esclude dal suo aiuto il Paese che non taglia le spese e non rimborsa il debito con gli interessi. Molti Paesi africani ‘aiutati’ dal Fmi non hanno rimborsato e sono stati esclusi dagli aiuti.

 

Tagliare le spese equivale a tagliare stipendi e pensioni della massa dei già poveri, così come l’Italia che per controllare la spesa sanitaria ha introdotto il ticket, un’imposta sulla salute più odiosa di quella ottocentesca sul sale e sulla farina. Sono le piccole laboriose formiche che fanno il formicaio.
L’intervento di sviluppo del Sud Italia degli Anni 60-80 concedeva finanziamenti a fondo perduto. Non sempre ha funzionato per incapacità e talvolta corruzione dei riceventi. In quel caso occorreva un intervento di assistenza tecnica e di controllo che non c’è stato, per incapacità e talvolta per la corruzione complice del benefattore.

 

Gli economisti dell’epoca citavano il successo dell’intervento Usa del 1933 della Tennessee Valley Authority. Ma quell’Authority era sana e competente. Anche il Fmi è di fatto una authority che possiede poteri d’ispezione, guida e intervento cogenti, ma il suo pregiudizio liberista di natura darwiniana è un letto di Procuste.
Keynes era consapevole che il malato non può curarsi da sé e che il debitore che non salda il debito, fallisce. È toccato all’Argentina. Propose allora di fare un falò dei titoli di credito inesigibili. La storia non insegna, non solo perché i tempi cambiano, ma soprattutto perché la visione di chi dovrebbe apprendere è offuscata da pregiudizi.

 

Nello staff del Fmi c’è chi assicura che si è disposti a cambiare per tener conto della lezione dei fatti, con una clausola però: evoluzione, non rivoluzione. Ma è questa che occorre per superare il darwinismo sociale della sopravvivenza dei più forti, lasciando al mercato il compito di spazzar via gli inetti.
Al momento, è aperta la questione greca e, in modo strisciante, italiana. C’è poi l’Irlanda che si è tirata fuori dai guai con il dumping fiscale a danno dei partner europei: un trattamento di favore per gli investitori esteri e un paradiso fiscale per le multinazionali. In pratica, ha trasferito ad altri la malattia.

 

La Svizzera ha seguito la stessa strada, non essendo però membro di un organismo collettivo. Oggi tuttavia, a seguito delle pressioni dei Paesi con cui commercia – tra questi c’è il nostro – sembra disposta a cambiare registro.
La Svizzera è un Paese prospero, pur essendo naturalmente povero. Solo roccia e qualche prato di fondovalle. Ma ha una buona amministrazione e gode di una pace pluricentenaria.

 

Non ho potuto fare un’analisi compiuta di Fmi nei suoi 70 anni di attraversamento del moderno e del postmoderno.
C’è chi lo esalta, chi lo esecra e chi è insoddisfatto. Tra questi, io che coltivo il sogno di un sistema bancario, pubblico o privato, partner a tutto tondo del finanziato, che semini sviluppo e curi il germoglio fino a completa crescita. E se l’offerta non è più adeguata, aiuta a cambiarla.
Esiste il venture capital che però si garantisce del possibile insuccesso sul costo del finanziamento. Non è il perfect banking che sogno.