Skip to main content

Mazzini Giuseppe, detto Pino

di Paolo Iacci

“Giuseppe Mazzini, che tutti chiamavano Pino, nacque a Solbiate Olona – quando sulla terra lombarda regnava paternamente Francesco II – e fu arrestato dall’imperialregia gendarmeria a soli otto anni, mentre di prima mattina si recava a scuola. Il funzionario davanti a cui fu sospinto si limitò a vaghe minacce e lo rimandò a casa frastornato: tanto che non osò raccontare la sua disavventura e l’assenza da scuola passò per una bigiata (così in quelle contrade viene detta la scampagnata truffaldina in ore di lezione).
Da allora Pino, che era figlio d’agiati possidenti, si accorse di essere sempre tenuto d’occhio dai poliziotti che ronzavano attorno a Solbiate: come ne scorgeva uno, che da lontano lo fissava con sospetto, affrettava il passo e alla prima cantonata svicolava e via di corsa.
Verso i diciotto anni, stanco di questa silenziosa persecuzione di cui non capiva la ragione, intascò un po’ di denaro e si diresse a ponente, varcando il Ticino a Bereguardo: ma approdato sulla sponda piemontese e fermato dai carabinieri, non appena dichiarò le proprie generalità fu arrestato e condotto in caserma. Pur non essendo analfabeta, il Mazzini non sapeva di politica: alle domande del maresciallo circa la Giovane Italia si strinse nelle spalle negando, nel suo gergo nativo, di conoscere quella ragazza. Incertosul da farsi, l’inquirente chiese lumi a Torino mantenendo il prigioniero sotto una blanda custodia; con astuzia contadina Pino riuscì quasi subito ad evadere, ripassò il fiume a nuoto e ancora fradicio e scalzoincappò in una pattuglia austriaca.
Incolto, ma non ottuso, il ragazzo si era reso conto che il suo nome, per motivi che gli sfuggivano, era la fonte dei suoi guai. Così si era preparato una buona alternativa e ai gendarmi dichiarò spavaldamente di chiamarsi Ciro Menotti: una scelta dettata dal capriccio e forse da una debole eco di ciarle da osteria. Fu impiccato a Mantova due settimane dopo”.
Chi ci racconta quest’episodio di quotidiana tragedia è Gaetano Parmeggiani nel suo Trentacinque personaggi eminenti, che in una nota acclusa ci rammenta come “il cognome Mazzini è frequente nell’Italia settentrionale e il nome Giuseppe è, dovunque, tra i più diffusi. Per distinguersi dal brulichio degli omonimi bisogna faticare, per tutta la vita continuando a fendere la folla con tenacia, controcorrente”1. È ciò che contraddistingue tutti coloro che nella vita riescono a dare la loro personale impronta agli eventi. Vale per gli individui come le imprese.
In questi anni di crisi il 20% delle imprese italiane, secondo l’Istat, è riuscito a crescere malgrado la contrazione della domanda interna e le difficoltà di chi non era abituato a esportare2. Moltissime medieimprese italiane hanno continuato a mantenere i propri conti a posto perché nel tempo si sono posizionate favorevolmente in particolari nicchie di mercato.
A chi non è mai capitato di imbattersi in aziende dal nome quasi sconosciuto per poi scoprire che sono leader di settore in uno specifico tipo di design, nelle cappe aspiranti, nelle celle frigorifere o in qualsiasi altro particolarissimo ambito merceologico?
Vi sono casi in cui addirittura il marchio identifica il prodotto: si pensi, ad esempio, alle viti a brugola. Si tratta di viti a esagono incassato che garantiscono in campo motoristico alte prestazioni in fatto di tenuta e serraggio, la cui produzione ancora adesso è garantita a livello internazionale dalla stessa impresa fondata negli Anni 20 da Egidio Brugola, il quale depositò poi il brevetto negli anni 40.
Oppure le Vibram, che in tutto il mondo si identificano con le suole a gomma vulcanizzata, il cui marchio è l’acronimo delle iniziali del fondatore, Vitale Bramani. Questi, esperto scalatore, nel 1935 affrontò con altri nove amici un’escursione in cui persero la vita in sei, lui salvandosi per miracolo. Male equipaggiati, gli amici dovettero la loro morte soprattutto alla mancanza di calzature adeguate. Fu così che il sopravvissuto decise di dedicare la propria vita a ovviare a questo problema, disegnando e poi producendo la prima suola a carrarmato in gomma. Ancora oggi, con una produzione annua di 35 milioni di suole, la sua azienda è leader a livello mondiale nella produzione di un oggetto il cui nome tecnico viene associato dagli esperti allo stesso marchio dell’impresa. Eppure, anche chi era ben posizionato nel suo piccolo mercato è riuscito a mantenere le posizioni, se non a migliorarle, grazie alla continua ricerca di arricchimento della propria valueproposition, senza per questo perdere l’identità e la nicchia di mercato conquistata negli anni.
A volte l’innovazione e il riposizionamento riguardano il prodotto. E qui i casi potrebbero essere mille. Valgano per tutti Piacenza Cashmere che oggi, grazie ai suoi investimenti, sfrutta le nanotecnologie per produrre tessuti accoppiati come lana e seta, o Ponti, produttore di aceto dalla metà dell’800 che sta muovendo i primi passi nel difficile mercato americano grazie a un piccolo ma efficace settore R&S che prepara nuove ricette di sottaceti non commercializzate in Italia ma su diretta richiesta dei distributori americani.
In altri casi, l’innovazione ha riguardato l’estetica: emblematico da questo punto di vista il caso Brembo, che ha reso i suoi freni non solo sistemi a elevata funzionalità prestazionale ma anche veri e propri oggetti di design. Tutto il made in Italy da questo punto di vista fa scuola. Basti pensare all’intero comparto della rubinetteria, dove l’Italia è tra i principali produttori a livello mondiale grazie alle sue prerogative estetiche. Oppure al caso di Safilo e di Luxottica, protagoniste indiscusse nel mondo dell’occhialeria italiana, un settore che in questi anni ha conquistato il mondo intero (la sola Europa e gli Stati Uniti assorbono l’80% della produzione italiana, ma il mercato asiatico e dell’Europa dell’est promette ulteriori enormi sviluppi). Sono lo stile e il design a contraddistinguere nel mondo questi marchi, così come più in generale tutto il made in Italy.
Tuttavia l’innovazione e l’arricchimento della value proposition non necessariamente riguardano il prodotto: spesso il segreto risiede nella capacità di coniugare standardizzazione e customizzazione spinta; termini in sé oppositivi, ma che la crisi ha coniugato insieme, attraverso una continua ricerca della massima flessibilità, della produzione manifatturiera, prima, e dell’intera organizzazione aziendale, poi.
È il caso di Arvedi, azienda leader nella produzione di nastri d’acciaio speciale a bassissimo spessore. Quest’azienda è riuscita nell’impresa di creare valore mantenendo la propria identità originaria, anzi rafforzandola, ma nello stesso tempo differenziandosi dal resto del mercato grazie a una particolarissima flessibilità di produzione che garantisce il nuovo impianto realizzato nei pressi di Cremona.
Analogo caso quello di Miroglio che in questi anni si è dotato della più avanzata tecnologia per la stampa digitale dei tessuti e che oggi riesce a soddisfare a prezzi più bassi della media anche lotti circoscritti grazie a una flessibilità fuori dalla portata di gran parte dei concorrenti.
In altri casi, invece, la leadership e la garanzia di crescita nella crisi è stata perseguita attraverso il miglioramento del servizio, trattando il cliente come unico e irripetibile. Technogym, ad esempio, per i migliori clienti può proporre non solo le attrezzature per la ginnastica, ma anche i software per l’allenamento, la consulenza nella messa a punto delle palestre private, fino all’ultimo dettaglio possibile. Nel campo dell’innovazione del servizio è molto interessante anche l’abbinamento della ristorazione con il retail librario nelle esperienze delle reti Mondadori e Feltrinelli.
In ogni caso, la grande maggioranza di quel 20% di aziende che sono cresciute in tempo di crisi è riuscita a migliorare la propria “offerta di valore” senza mai però perdere l’identità originaria. Questa coerenza nell’innovazione, anche la più radicale, è sempre stata ripagata dalla clientela. Per dirla con Parmeggiani: il mercato si è rimesso a cercare il vero Mazzini e ha smesso d’inseguire i falsi Ciro Menotti.