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Preservare e promuovere il Made in Italy

| Martina Midolo |

A gennaio 2023 Fratelli d’Italia, il principale parti­to politico della coalizione che guida il Paese, ha depositato il disegno di legge intitolato Delega al Governo per l’istituzione del liceo del Made in Italy e, proprio in occasione del Vinitaly, la più grande manifestazione dedicata al mondo del vino che si è svolta a inizio aprile 2023 a Verona, la Premier Giorgia Meloni ha rilanciato il progetto evidenziandone le finalità: tutelare il marchio italiano e dare continuità a una serie di settori dell’economia che, altrimenti, rischiano di essere totalmente perduti. La tematica è molto sentita dal Governo, che ha tenuto a ribattezzare il Ministero dello sviluppo economico proprio nel “Ministero delle imprese e del Made in Italy”.

Ma mentre le istituzioni preservano e inco­raggiano l’italianità, le aziende affrontano un momento storico in cui i confini fisici sono sem­pre più ‘flebili’, le catene del valore sempre più interconnesse a livello globale e la popolazione invecchia (Eurostat ha rilevato che nel 2022 l’Ita­lia ha registrato il più alto indice di dipendenza degli anziani dell’Ue, inteso come il rapporto tra il numero di anziani e il numero di persone in età lavorativa) oppure emigra (il Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana evidenzia che dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cre­sciuta dell’87% e nel 2022 ha perso lo 0,5% di popolazione residente). In questo scenario, quale sarà il futuro del marchio Made in Italy e come si potrà tutelarlo?

L’italianità è questione di storytelling

In riferimento, per esempio, all’Agroalimentare (settore che, stando ai dati raccolti dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’eco­nomia agraria e riferiti al 2021, vale 522 miliardi e contribuisce al 15% del Pil nazionale), la glo­balizzazione ha rimescolato le carte in tavola e ha reso più difficile ai consumatori riconoscere l’origine dei prodotti e degli ingredienti. Secondo Coldiretti, a causa del cosiddetto ‘Italian soun­ding’ (fenomeno che consiste nell’utilizzare denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni) più del 66% dei prodotti agroalimentari italiani nel mondo sono falsi e senza alcun legame produttivo e occupazionale con l’Italia. “Il marchio Made in Italy e la bandiera italiana sono spesso usati in modo improprio, per ‘imbrogliare’ il consuma­tore, presentandogli un prodotto che sembra italiano, ma non lo è”, commenta Dario Roncadin, Amministratore Delegato di Roncadin, azienda di Pordenone che produce pizze surgelate ed esporta circa il 70% della produzione. “Questa questione mi ha turbato per molto tempo, ma ora mi sembra sia evoluta la consapevolezza da parte dei consumatori, che riconoscono una qualità del prodotto diversa”, prosegue il manager. Esportare Made in Italy è quindi una grande responsabilità per l’azienda, che sente il compito di raccontare, attraverso il prodotto, la vera storia della cul­tura culinaria italiana e il know how maturato negli anni. Accanto a questo, però, Roncadin asseconda anche le esigenze del business e del mercato, che richiedono di crescere, ma anche di adattarsi: “La qualità del prodotto prima di tutto, per questo prediligiamo le materie prime italiane, ma chiedendoci sempre se si tratta della scelta migliore. Abbiamo quasi 450 ricette in azienda e, a seconda del mercato in cui andiamo a vendere, valutiamo se utilizzare ingredienti di altri Paesi, che valorizzerebbero meglio la nostra pizza, si pensi all’avocado o al salmone, che non sono prodotti tipici.

Per l’Amministratore Delegato di Roncadin la ‘bel­lezza’ della pizza sta proprio nella sua versatilità: un prodotto che può accogliere gli ingredienti più disparati e il cui successo mondiale si deve anche alle varie versioni personalizzate nate dall’incontro con altre culture. “Nonostante tutto è un prodotto che rimane italiano; il nostro Paese è il metro di paragone, e qui rimane la culla prin­cipale dell’innovazione sulla pizza”, sottolinea Roncadin.

Anche mossa da questa convinzione, l’azienda sta perseguendo il progetto di aprire uno stabili­mento negli Stati Uniti, a Chicago: una scelta che considera principalmente il tema della sosteni­bilità. “Fino a quL’azienda ha quindi accolto la sfida mettendosi in gioco, sfruttando le potenzialità di poter tra­smettere e tramandare, fuori dall’Italia, un pezzo di storia del Paese. In questi termini, la strategia di apertura e di condivisione è vincente perché permetterà non solo di crescere in termini eco­nomici, ma anche rispetto alla reputazione e riconoscimento dei valori e della cultura italiana. “Essere troppo ‘puristi’ non porta da nessuna parte; per evolvere bisogna osare e accettare di contaminarsi.

Se vogliamo stare sul mercato, dobbiamo coinvolgere i vari Paesi e adattare la nostra offerta ai loro gusti e alle loro culture, solo in questo modo potremo farci conoscere”, afferma il manager Roncadin. Aprirsi a nuovi Paesi, localizzandovi anche il processo produtti­vo, rappresenta una grande occasione di crescita in termini di know how e competenze, che saranno messe in comune, nel caso dell’azienda di Pordenone, con quelle statunitensi. Inoltre, Roncadin considera un grande valore poter permettere alle persone che lavorano in Italia di poter viaggiare. “La creatività che ci contrad­distingue come popolo è incredibile confronto a quella straniera. E se la nostra pizza non sarà più letteralmente Made in Italy, è pur vero che sarà comunque ‘made by italians’, con l’esperienza e le competenze italiane”, conclude Roncadin.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Maggio 2023 di Sistemi&Impresa.
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