Reinventare le città per fare impresa, nuove organizzazioni del territorio

“Imprenditore”: termine inventato da Richard Cantillon nel 1755 per identificare chi assume il rischio di proporre scambi di merci sul mercato; poi, nel secolo scorso, Joseph Alois Schumpeter affinò la definizione descrivendo l’imprenditore come colui che introduce innovazioni nel sistema economico attraverso l’impresa. L’imprenditore genera dunque un processo di cambiamento – sempre, secondo Schumpeter, di ‘distruzione creatrice’ – nel cui ambito le innovazioni tecnologiche e gestionali modificano l’equilibrio dei mercati eliminando le imprese incapaci di innovare.

Un fenomeno che ha provocato effetti dirompenti nel Terzo Millennio quando cambiamenti divenuti troppo rapidi, continui, imprevedibili e assolutamente non programmabili hanno determinato livelli eccezionali di complessità. Larry Downes e Paul Nunes hanno scritto su questo tema un eloquente saggio dal titolo significativo: Big-Bang Disruption – Strategy in The Age of Devastating Innovation.

In particolare la quarta rivoluzione industriale in atto ha spinto l’Italia a predisporre un Piano Nazionale Industria 4.0, per realizzare un modello italiano di sviluppo imprenditoriale attraverso la diffusione dei nuovi processi digitali collegati a internet. Un piano peraltro in grado di trainare anche altri settori, per esempio, quello dell’industria delle costruzioni dove si hanno maggiori difficoltà a introdurre alte tecnologie innovative.

Mario Deaglio, nel suo ultimo rapporto Globalizzazione addio?, chiarisce come quel piano sia stato pensato dal Governo italiano anche per stimolare “il mutamento del paradigma tecnologico […] e l’incombente quarta rivoluzione” al fine di perseguire una “fabbrica elegante” ovvero “una fabbrica intelligente (smart factory), in grado di realizzare prodotti intelligenti (smart product)”. Va anche segnalato che le imprese e i soggetti che vi operano, come del resto la maggior parte degli essere umani, spendono gran parte della loro esistenza nelle città da sempre considerate “cuore dello sviluppo” – città oggi diventate ‘Global City’ caratterizzate da grandi difficoltà nella “gestione degli spazi urbani contemporanei”.

Perugia, un esempio di ‘città museo’, in uno degli affreschi di
Sant’Ercolano e San Ludovico, del 1454, a opera di Bendetto Bonfigli

Le ‘città dell’esistenza’

Lo scenario operativo del Terzo Millennio presenta dunque cambiamenti dirompenti e una complessità ormai endemica di difficile governabilità – situazioni, queste, che interessano tutti i cittadini oppressi da un diffuso degrado fisico e dal conseguente malessere sociale ormai tipici delle ‘città dell’esistenza’ e delle loro periferie spesso emarginate. In realtà, forme più o meno efficienti di adattamento all’attuale cambiamento traumatico si verificano nei microcosmi organizzativi delle imprese e nei luoghi di lavoro, uffici, fabbriche, cantieri edili che, secondo Deaglio, tendono a diventare eleganti, ma anche nella vita quotidiana dei singoli cittadini e dei loro nuclei di convivenza.

In ambito macroeconomico, invece, il problema non è mai stato affrontato sistematicamente, né si sono definite modalità generali per il governo della complessità presente in particolare sul territorio urbano, dove con maggiore evidenza si avvertono i sintomi della crisi generale in atto.

Il Governo italiano ha di recente affrontato il problema, peraltro non più rinviabile, con un bando che purtroppo prevede ancora classici interventi a pioggia – anzi ‘ad acquazzone’ – se si considerano i significativi importi assegnati ai diversi comuni con un Decreto del 6 dicembre 2016, senza prevedere una concezione sistemica d’insieme che trasformi la casualità degli eventi in un processo stabile di gestione innovativa e di manutenzione conservativa programmata come regola essenziale di buon governo delle città. Nei relativi ordinamenti di assegnazione dei fondi è stata giustamente imposta la clausole “senza ulteriore consumo di suolo”, mentre si richiede che i progetti presentino un generico “miglioramento della qualità del decoro urbano”, una “manutenzione, riuso e rifunzionalizzazione di aree pubbliche e di strutture edilizie esistenti, per finalità di interesse pubblico”, e ancora “l’accrescimento della sicurezza territoriale e della capacità di resilienza urbana”, lasciando peraltro confuse le scelte delle modalità esecutive che rimangono legate sempre e soltanto all’occasionalità di ciascuna singola esigenza.

Fra le rarissime voci critiche va segnalata quella di Carlo Ratti che, sul quotidiano La Stampa del 9 marzo 2017, ha definito il piano governativo “una delle azioni urbane più ambiziose mai messe a punto nel nostro Paese”, auspicando che “gli stanziamenti del Governo siano utilizzati secondo una logica partecipativa”, attivando “i giusti strumenti di ascolto”. Una partecipazione che andrebbe trainata facendo ricorso all’impegno giovanile come potenziale apportatore di immaginazione innovativa nelle aree degradate, promuovendo il fondamentale coinvolgimento delle scuole presenti nelle aree interessate al fine di motivare, insegnare, entusiasmare appunto i giovani affinché possano sentirsi protagonisti virtuosi di una nuova cultura delle periferie su cui intervenire con processi di innovazione continua.

Ancora, dunque, un’occasione mancata per studiare e sistematizzare un nuovo approccio al governo delle città con l’obiettivo di contrastare il degrado fisico e il malessere sociale emersi ed emergenti. A Parigi, il sindaco Anne Hidalgo ha lanciato un esemplare appello a tutti i professionisti chiedendo progetti urbani innovativi sostenendo che “Paris doit se réinventer à chaque instant” grazie a una innovazione urbana da considerare appunto come un processo continuo nel tempo. Un altro monito da tenere presente proviene invece dall’Ottocento romantico: è di Fëdor Dostoevskij che invocava la “bellezza salverà il mondo”, un auspicio oggi da riscoprire come valore per cercare una nuova dimensione spirituale e quindi anche organizzativa delle città, laddove l’attuale stress quotidiano rende pressoché impossibile qualsiasi forma di meditazione.

Ripensare le città come più alta espressione del ‘ben vivere’

Le città andrebbero ‘reinventate’ alla luce di quel valore estetico che definiamo bellezza, così da poter recuperare le consapevolezze dei loro fasti trascorsi, quando rappresentavano la più alta espressione di un ‘ben vivere’ civile dell’essere umano che si realizzava nelle strade e nelle storiche piazze cittadine fra la molteplicità dei palazzi, delle fabbriche, delle botteghe artigiane presenti. Oggi si dovrebbe ricercare ed evidenziare, per ogni agglomerato urbano, una bellezza sempre diversa da rendere tipica e da usare come forte elemento di omologazione al fine di salvare, ripensare, reiventare, rivitalizzare ogni città con la finalità prioritaria di combattere l’emarginazione ormai generalizzata diffondendo educazione e cultura sul territorio urbano.

L’articolo completo è stato pubblicato sul numero di Maggio 2017 di Sistemi&ImpresaPer leggere l’articolo completo acquista la versione .pdf scrivendo a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434419)

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