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Se l’inflazione da domanda si unisce a quella da costi serve agire sul cuneo fiscale per evitare la recessione

La lettura del rapporto Unioncamere Lombardia sull’andamento della produzione industriale nel primo trimestre 2022 segnala significative differenze rispetto allo stesso periodo riferito al 2021, che, almeno a livello qualitativo, possono essere ritenute espressione di una più ampia tendenza nazionale, caratterizzata da fenomeni contrastanti. Da un lato, si registrano sensibili aumenti dei volumi di produzione, cresciuti complessivamente del 10,7%, con valori settoriali che vanno da un +3,4% per i Trasporti e un +5,9% per il Chimico al +27,6% dell’Abbigliamento e al +29% delle Pelli-Calzature. Sono quasi doppi, invece, gli incrementi del fatturato: complessivamente +19,1%, con massimi del +33,7% nel Tessile e del +32% per l’Abbigliamento e minimi che si attestano ‘solo’ al +8,6% dei Trasporti. Le differenze tra i due aumenti sono naturalmente da imputarsi alla revisione verso l’alto dei listini, il che ci porta all’altro lato della medaglia: quello dell’inflazione, che rischia di minare – e comunque indebolisce – il positivo recupero della produzione.

La notevole ripresa della domanda, infatti, conseguente al progressivo superamento della contingenza del covid-19, comporta (o meglio: comporterebbe, a parità di altre condizioni) un fisiologico aumento dei prezzi di vendita, di per sé contenuto, che incontra quella dell’offerta a livelli di prezzo più elevati, ma comunque all’interno del range delle capacità produttive preesistenti. Purtroppo, però, a questa ‘classica’ inflazione da domanda che, di per sé, sarebbe rimasta entro ambiti dimensionali e temporali limitati, man mano che le potenzialità produttive preesistenti vengono recuperate e riportate a regime, si è sommata una notevole inflazione da costi, legata ai prezzi delle materie prime, i cui segnali erano già presenti da mesi, ma che è esplosa – soprattutto per quanto riguarda le fonti energetiche – con il conflitto fra Russia e Ucraina.

Mentre il primo fenomeno provoca un aumento sia dei volumi di produzione sia dei prezzi, il secondo vede aumentare i prezzi e diminuire la produzione.

Inflazione e recessione: il rischio della stagflazione

Al momento, le stime della Comunità europea e dei principali analisti valutano l’inflazione da domanda ancora prevalente rispetto a quella da costi: il Pil aumenta, ma le stime di crescita sono sensibilmente ridimensionate. È evidente, però, che, mentre le dinamiche del primo fenomeno possono, almeno in linea di principio, risultare piuttosto prevedibili e, in qualche modo, governabili con interventi di politica monetaria (aumento dei tassi di interesse e riduzione degli interventi di Quantitative easing), quelle dell’inflazione da costi, a causa delle motivazioni geopolitiche, sono intrinsecamente imprevedibili.

Si profila, pertanto, il rischio di stagflazione: se il contributo (negativo) dell’aumento dei costi alla variazione dei volumi di produzione supera quello (positivo) dell’aumento della domanda, si hanno inflazione e recessione insieme. È un rischio, questo, messo in grande evidenza dalle recenti dichiarazioni del CEO di J. P. Morgan Chase Bank, Jamie Dimon, che prevede a breve un ‘uragano’ economico, contraddicendo, o almeno ridimensionando fortemente, le precedenti ottimistiche previsioni del suo stesso istituto. La situazione è ulteriormente complicata dalle probabili dinamiche salariali, cui assisteremo nei prossimi mesi.

Da una parte, infatti, è prevedibile una generalizzata – anche se differenziata – crescita delle retribuzioni, a causa dell’aumentata domanda di manodopera e dall’accresciuta esigenza di contrasto alle perdite di potere d’acquisto passate e, soprattutto, attuali. Le raccomandazioni europee di un (assolutamente legittimo ed eticamente inoppugnabile) recupero ‘automatico’ dell’inflazione, almeno sui livelli retributivi più bassi, vanno in questa direzione. Purtroppo, però, per una sorta di perversa eterogenesi dei fini, interventi del genere, se non opportunamente calibrati, rischiano di essere sostanzialmente dannosi, o addirittura controproducenti. Ce lo insegna la storia della Scala mobile, strumento economico abolito (in Italia) nel 1992 proprio a causa della sua constatata dannosità, o almeno inutilità.

Aumentano i salari, ma non il potere d’acquisto

L’aumento delle retribuzioni comporta, infatti, un immediato e parallelo aumento dei costi di produzione, che innesca un’ulteriore inflazione da costi, che, però, non essendo ‘importata’ (come quella derivante dagli aumenti di gas e petrolio), è accompagnata da una pari inflazione da domanda. Ovvero, 100 euro in più in busta paga provocano più domanda e meno offerta: la quantità di prodotti realizzati e venduti resta sostanzialmente invariata – come anche il potere d’acquisto dei lavoratori – e l’unico aumento effettivo è quello dei prezzi, il che significa maggiore inflazione e, quindi, ulteriori aggravi negli oneri finanziari sostenuti dalle imprese.

Che fare dunque? L’unica maniera per conciliare l’improcrastinabile esigenza di adeguare, almeno parzialmente, le retribuzioni all’aumento del costo della vita, con la necessità di non innescare una dannosa spirale inflazionistica, è intervenire sul cosiddetto cuneo fiscale, in modo da rendere le buste paghe più pesanti a parità del costo di lavoro. Anche questo non sarà indolore: in economia non esistono free lunch. Il Governo non può finanziare in deficit il taglio del cuneo fiscale: già ora lo spread ha raggiunto livelli preoccupanti e il macigno del nostro debito pubblico si fa sempre più pesante all’aumentare dei tassi.

Sarà, quindi, necessario intervenire su altri capitoli: taglio delle spese improduttive (come per esempio quelle legate alla Difesa), dell’evasione fiscale e della tassazione delle rendite. Ci riuscirà un Governo già dilaniato dall’eterna campagna elettorale? Imprese e lavoratori che oggi, con l’aumento della produzione, hanno rimesso in moto il Paese, non possono più aspettare.

L’articolo è pubblicato sul numero di Giugno 2022 di Sistemi&Impresa.
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