L’era della globalizzazione inclusiva

Utilizzare la metafora della guerra per riferirci alla crisi causata da un virus arrivato dalla Cina è stato improprio. Oggi che abbiamo un conflitto a poche ore di aereo possiamo dirlo. Nel giro di una notte, i nostri imprenditori si sono dovuti confrontare con un’impennata dei costi energetici, crisi di approvvigionamenti, difficoltà di reperimento delle materie prime e sanzioni. Non abbiamo certezze riguardo alla fine di una guerra, che lascerà strascichi indelebili: si profila la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta sino a ora, che pure ha contribuito allo sviluppo di territori lontani; il reshoring potrebbe diventare un’opzione presa seriamente in considerazione. Ma le questioni aperte sono molte.

Innanzitutto, non è possibile riportare in patria in tempi rapidi intere produzioni che da decenni si sono abbandonate, come la componentistica a basso costo. L’operazione richiede tempo e comporta in genere lavori a basso valore aggiunto. Inoltre, può risultare estremamente antieconomico incentivare produzioni laddove il prezzo dell’energia rappresenta la causa del fermo di molti impianti. Dovremo temporaneamente accantonare gli obiettivi di sostenibilità? Acquistare gas oggi costa tre volte tanto rispetto al 2021 e 10 volte di più rispetto ai minimi del 2020. Questo aumento pone problemi di sostenibilità ai bilanci e di competitività per le industrie manifatturiere che utilizzano processi produttivi ad alta intensità energetica, come il settore ceramico, le cartiere, le fonderie.

Ci sono anche altre incognite che pesano sul futuro della nostra economia: il possibile default della Russia determinerebbe una diminuzione delle importazioni dall’Europa; l’inflazione procurerà una perdita di potere d’acquisto e resta aperta la questione degli approvvigionamenti di energia, che nel nostro Paese dipendono ancora fortemente da Mosca e fanno emergere la necessità di diversificazione delle fonti. Le tensioni geopolitiche impatteranno sempre di più sulle relazioni commerciali e, in questo preciso frangente, il ruolo della Cina rappresenta un’incognita.

È in gioco lo schema della sicurezza globale che si era formato nel 1989 con la caduta dell’Unione sovietica e lo scioglimento del Patto di Varsavia. La via d’uscita potrebbe essere la transizione da una diarchia (Occidente-Oriente) a una poliarchia tra aree omogenee che tendono verso una convergenza competitivo-collaborativa. L’auspicio è la tensione verso una globalizzazione non asimmetrica, più giusta e più inclusiva.

Un ruolo decisivo lo gioca, come sempre, la classe imprenditoriale. Chi fa impresa deve essere per sua natura ottimista e quindi disponibile ad affrontare le difficoltà dell’attività imprenditoriale. Oggi, oltre a questo bisogna aggiungere una capacità che la nostra classe imprenditoriale esprime con maggiore fatica: l’attitudine a fare rete, consorziarsi, collaborare per gestire le grandi sfide del momento, come la sostenibilità: far tutto da soli non paga più. L’innovazione nasce anche dal confronto e dall’aderenza ai valori universali legati alla natura umana.

L’editoriale è pubblicato sul numero di Marzo 2022 di Sistemi&Impresa.
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