Il caro energia colpisce il Manifatturiero: bisogna proteggere e supportare le PMI

In Italia il Manifatturiero (secondo in Europa) è un pilastro irrinunciabile del sistema produttivo. Il settore è caratterizzato da notevoli diversificazioni tipologiche, geografiche e organizzative che gli conferiscono un ruolo assolutamente centrale – e almeno potenzialmente – in ulteriore crescita, nell’economia nazionale, come analizzato nel libro Per un manifesto della Manifattura italiana (ESTE, 2021). Per ovvi motivi, esso è mediamente molto energivoro (anche se con notevoli differenze tra i vari ambiti merceologici) e – in quanto tale – è stato pesantemente colpito dal recente e brusco aumento dei costi dell’energia.

Nel nostro Paese la principale fonte energetica è il gas naturale, sia nei suoi utilizzi diretti sia, soprattutto, nella produzione di elettricità. Complessivamente riguarda quasi il 50% del fabbisogno, mentre è seguito per circa il 40% da fonti rinnovabili, e il residuo 10% è coperto da carbone e olio combustibile. A febbraio 2021 si poteva acquistare sul mercato all’ingrosso un megawattora equivalente di gas per circa 18 euro; a dicembre 2021 il prezzo ha superato i 110 euro, sfiorando a febbraio 2022 i 139 euro, con un aumento di quasi il 700%. Conseguentemente anche il costo dell’energia elettrica si è impennato: se il prezzo di un megawattora all’ingrosso nel 2019 oscillava intorno ai 43 euro, nel 2020 era di circa 54 e a febbraio 2021 valeva mediamente 57, a dicembre 2021 è arrivato a 285 euro, con un valore quindi quintuplicato in soli 10 mesi.

L’aumento dei prezzi è causato da ragioni geopolitiche

L’eccezionale aumento dei prezzi ha molte somiglianze con quanto, in Italia e non solo, avvenne a causa del primo choc petrolifero del 1973, quando, nel giro di pochi mesi (se non giorni) il prezzo del petrolio passò da circa 3,8 a 10 dollari al barile; o anche del secondo choc petrolifero del 1979, con aumenti da 15 a circa 40 dollari al barile. In tutti i casi citati la principale – anche se non unica – motivazione dell’improvviso enorme aumento delle quotazioni è stata geopolitica, che vede l’Italia in condizioni di pesante vulnerabilità in considerazione della sua quasi totale dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti di gas e petrolio.

Situazioni del genere si configurano immediatamente come classiche cause di inflazione ‘da costi’: i produttori registrano notevoli aumenti nei prezzi delle materie prime e sono costretti a trasferirli, in tutto o in parte, a valle sui loro clienti, con effetti che si propagano progressivamente su quasi tutti i mercati, tanto più rapidamente quanto più trasversale risulta essere l’utilizzo, diretto o indiretto, della risorsa rincarata. È quanto avvenne, appunto, nel 1973: il tasso di inflazione italiano, che era già cresciuto dal 5 al 10% in poco più di un anno, proprio a seguito di tali aumenti balzò al 25% in pochi mesi, con effetti devastanti su tutta l’economia nazionale. Continuò poi a oscillare tra il 12 e il 22% fino al secondo choc del 1979, che ebbe evoluzioni parzialmente analoghe.

Non tutti i Paesi sono colpiti allo stesso modo

Rispetto all’esperienza di (quasi) mezzo secolo fa, l’attuale congiuntura registra alcune differenze che la rendono oggettivamente ancora più complessa. Innanzitutto, l’aumento dei prezzi del petrolio del 1973 colpì in maniera simile – anche se non uguale – quasi tutti i Paesi industrializzati, almeno nell’immediato (poi alcuni, in particolare, Regno Unito e Norvegia, riuscirono a ridurre la loro dipendenza dall’estero grazie al petrolio del Mare del Nord): inflazione da costi ‘pura’ per (quasi) tutti, quindi, e pertanto con relativamente limitati effetti sulla competizione internazionale.

Oggi, invece, anche limitandoci al solo contesto europeo, ci sono Paesi che, in varia misura, sono meno gravemente colpiti: la Francia usa il gas solo per il 20% della sua produzione di elettricità, facendo affidamento principalmente sul nucleare, che copre il 70%; la Germania ricorre al gas solo per il 17%, grazie soprattutto a rinnovabili e carbone; la Spagna lo utilizza per il 31%, e la Polonia solo per il 10%, visto il massiccio ricorso al carbone. Ciò significa che le loro industrie sono – almeno potenzialmente – meno colpite delle nostre dall’aumento dei prezzi del gas e ciò aumenta la loro pressione concorrenziale sul Manifatturiero nazionale sia in Italia sia all’estero.

La ripresa ha provocato significativi aumenti della domanda

Dobbiamo inoltre rilevare come, mentre l’inflazione del 1973 fu, almeno in fase iniziale, quasi esclusivamente ‘da costi’, oggi registriamo a livello internazionale e nazionale anche significative spinte inflazionistiche ‘da domanda’. La pandemia di covid-19, infatti, soprattutto nel periodo dei lockdown, ha compresso molto la domanda, interna ed estera, di beni e servizi. Molte imprese, nel Manifatturiero e non solo, sono state così costrette a ridimensionare notevolmente la loro attività – purtroppo anche con significative riduzioni degli organici – o addirittura a chiudere.

Il progressivo esaurirsi delle limitazioni (soprattutto grazie ai vaccini), insieme con i pesanti interventi di sostegno messi in atto un po’ da tutti i Governi (si pensi, a solo titolo esemplificativo, al nostro bonus 110%) ha provocato bruschi aumenti della domanda, che hanno trovato il nostro sistema, almeno nell’immediato, impreparato. Questa impreparazione vale per due aspetti: la necessità di rimettere in moto la macchina, recuperando – o sostituendo – il personale licenziato (o comunque ‘abbandonato’, come nel caso dei contratti a tempo determinato non rinnovati) nei mesi precedenti; le difficoltà negli approvvigionamenti di molte materie prime e componenti (particolarmente pesante il caso dei microchip, ma gli esempi sono numerosi).

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Gennaio-Febbraio della rivista Sistemi&Impresa.

Per informazioni sull’acquisto di copie scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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