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L’Industria 4.0 è un cambiamento culturale

Ultimamente si fa un gran parlare di automazione, robotica, intelligenza artificiale e di quanto questi fenomeni stiano cambiando profondamente il mondo del lavoro. A mio parere però, prima di capire come e quanto Industria 4.0 impatterà sul nostro modo di lavorare, c’è un problema più profondo da considerare.

Come sappiamo, siamo passati da un modello industriale di tipo ‘fordiano’, essenzialmente composto da lavoratori assunti per eseguire dei compiti previsti in minuziose procedura, a un modello postindustriale, in cui tutto ciò che si può ridurre a procedura viene sempre più affidato ai computer così da lasciare più spazio all’automazione laddove ci siano compiti ripetitivi. Quello che però ancora oggi le macchine non riescono a fare è dare al cliente un’esperienza di servizio plasmata alle multiple aspirazioni che ha potenzialmente la ‘persona uomo‘ (sicuramente più complesse di quelle che gli algoritmi usano per gestire le procedure).

Questo implica che è nel mondo dei servizi che si giocherà la battaglia fra uomo e macchina. Ed  è proprio qui, nello sviluppo e gestione della ‘prossemica al cliente‘, che l’uomo resta e resterà ancora per un po’ padrone del campo. Perché ancora oggi nessun algoritmo è in grado di capire le emozioni di un essere umano e di riprodurne ‘il tocco’ nei rapporti diretti fra persone.

Ma per poter continuare a vincere in questa nuova battaglia sociale i moderni lavoratori non dovranno essere solo maggiormente potenziati dalla tecnologia, ma dovranno anche essere lasciati autonomi nel prendere molte decisioni senza più avere vicino un capo-padrone che le imponga dentro un sistema fatto di dettagliate procedure.

Insomma, a ben vedere, un universo profondamente contrario a un industrialismo alla Ford fondato sulla cooperazione prescrittiva. Come sappiamo questo nuovo universo è quello che porta a vedere i membri di un’azienda come persone che lavorano per gli stessi fini non solo grazie a un pluralismo dei mezzi (sempre meno prevedibili, programmabili e spesso individuati da una iniziativa individuale) ma a un pluralismo delle idee, delle proposte, di quei prodotti ‘della mente’ che alla fine sono il fulcro del servizio.

I percorsi trasversali

È per questo che oggi è molto importante parlare di potenziamento delle soft skill, vale a dire di tutte quelle competenze sociali e trasversali che discendono dai tratti della personalità e dai valori degli individui. La cosa interessante addirittura è che nell’economia dei servizi e della prossemica al cliente accade che l’iniziativa, la capacità di conquistare la fiducia e la simpatia dei clienti, quella di cavarsela da solo senza qualcuno che ogni volta gli risolva i problemi diventino a volte più importanti delle skill che il lavoratore ha studiato a scuola.

In questa prospettiva da tempo anche la stessa giurisprudenza sottolinea quanto la definizione di ‘lavoratore data dal nostro Codice Civile (mi riferisco in particolare all’articolo 2094) non riesca più a star dietro alla nuova realtà. Il motivo come sappiamo è semplice: quello che nel lontano 1942 il Legislatore aveva considerato per definire il rapporto di lavoro dipendente era legato ancora a modelli industriali derivati dal fordismo (con una forte distinzione fra operai e impiegati) e da un sistema nazionale caratterizzato dalle corporazioni.

Non solo: il Legislatore del 1942 aveva ancora in mente la figura del lavoratore “collaboratore”, in quanto all’epoca corporativistica tra datore e prestatore c’era un intimo rapporto fiduciario tale per cui si doveva (e sottolineo doveva in termini di obbligo morale e giuridico di cittadino) collaborare con il datore sia per l‘interesse della sua impresa che della nazione stessa dietro una retribuzione per la locatio operis.

È evidente che è solo uscendo da questo approccio che un’azienda (anche se dotata di tecnologie e software moderni) potrà arrivare a cavalcare veramente ciò che è sotteso a Industria 4.0: un cambiamento che, più che tecnico, alla fine diventa culturale. È proprio questo, infatti, il problema di cui parlavo all’inizio: come possiamo veramente pensare di vincere la guerra tecnologica quando in Italia la cultura è spesso ancora ‘corporativa’, fatta per non essere messa in discussione e per accettare la diversità dei ‘non addetti ai lavori’ o di chi ‘non ha esperienza’?

Ecco perché forse lo sforzo sarà, più che tecnologico, di tipo culturale: un cambiamento fatto per uscire dal tradizionale (e ancora oggi duro a morire) approccio ‘fordiano’ alla gestione dei lavoratori, passando attraverso percorsi professionali e di formazione il più possibili trasversali e meno monolitici rispetto a quelli attuali.