L’AI non ci ruberà il lavoro, ma solo se investiamo di più

| Manuela Gatti |

Su due cose concordano docenti, giuslavoristi e sindacalisti: la transizione tecnologica non segnerà la fine del lavoro umano. E le statistiche disfattiste a favore di questa tesi non hanno alcun fondamento scientifico. Nonostante Intelligenza Artificiale e robot – anzi, proprio grazie a loro – all’uomo toccherà lavorare anche in futuro, che piaccia o meno. Da un lato con mansioni meno faticose e pericolose, dall’altro meno specializzate.

Sono state queste le conclusioni del terzo incontro del ciclo D-Avengers, serie di appuntamenti dedicati alla metamorfosi digitale e promossi da Aica, l’Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico, con il contributo scientifico della Sda Bocconi e con la media partnership di ESTE. Il 17 ottobre 2019 nell’ateneo milanese si sono confrontati sul tema Alfredo Biffi, Affiliate Professor di Information Systems alla Bocconi e Associate Professor di Organization Theory all’Università dell’Insubria, il Segretario Generale Fim Cisl Marco Bentivogli, il Professore di Diritto del lavoro Pietro Ichino e Mauro Ghilardi, Global Head of People and Organization Staff Function di Enel.

Meno tecnologia, meno lavoro

La premessa è comune. “Il progresso tecnologico non ha mai portato disoccupazione nel medio e lungo periodo, perché i mestieri si sono sempre riconvertiti”, spiega Ichino. È sbagliato, infatti, credere che quella a cui stiamo assistendo sia la prima rivoluzione che abbia coinvolto il mondo del lavoro, e per ricordarselo basta aprire un qualunque libro di storia. Per questo Bentivogli (che ha curato un capitolo del libro Il futuro della fabbrica edito da ESTE) parla del momento storico attuale come del “secondo balzo in avanti dell’umanità”. “Con la scoperta della macchina a vapore sono stati superati i limiti fisici di uomini e animali, pur con tutte le contraddizioni del caso, a partire dall’inquinamento. Oggi stiamo compiendo il secondo balzo in avanti, che porterà al superamento dei limiti cognitivi degli esseri umani”.

I dati – quelli veri – mostrano d’altronde che laddove si è avuto il coraggio di investire in modo significativo nel progresso tecnologico, l’occupazione è aumentata. I numeri più eclatanti in questo senso sono quelli della Corea del Sud. Ma anche in Italia, nonostante un tasso di disoccupazione ancora problematico, negli ultimi 40 anni la crescita del numero degli impiegati è andata di pari passo con quella della tecnologia e della globalizzazione. “Non è la tecnologia che cancella i posti di lavoro, ma la sua mancanza”, è la convinzione del segretario generale Fim Cisl. Un esempio – questa volta negativo – è quello dell’industria del bianco (con il caso attualissimo di Whirlpool), settore in cui si è cominciato a delocalizzare negli Anni 90 non solo per colpa di passaggi generazionali sfortunati ma anche a causa dei mancati investimenti in tecnologie.

Discontinuità di pensiero

Serve quindi coraggio, ma soprattutto un cambio di mentalità. Smetterla di lottare per difendere lo status quo e accettare il fatto che il lavoro nel futuro prossimo cambierà, ma questo non significa che scomparirà. L’esortazione di Biffi è alla “discontinuità di pensiero”: immaginare nuovi modelli economici di sviluppo, diversi da quello attuale, che permettano alle persone di avere il loro spazio nel mondo, di realizzarsi come individui anche delegando la propria funzione produttiva.

Nelle aziende, tuttavia, paura e scetticismo continuano spesso a farla da padrona. Lo dimostrano le testimonianze di Lara Carrese, Hr Director di Prelios, Giorgio Manfredi, Ceo di Flamel, e Francesco Ciuccarelli, Cio di Alpitour World. I dipendenti sono preoccupati di essere sostituiti da macchine. Mentre chi si interfaccia con le aziende – come Flamel, startup che si occupa di Intelligenza Artificiale e analisi di dati – riscontra generalmente una scarsa conoscenza del tema, una diffidenza diffusa nei confronti dell’AI e poca volontà di impegnarsi nella transizione tecnologica con una visione a medio-lungo termine e con investimenti economici adeguati. La consapevolezza di stare vivendo un passaggio epocale c’è, ma la si vive tendenzialmente in modo negativo perché non si sa come affrontarla.

Nuove regole e formazione

In concreto, quindi, come intervenire? Secondo gli esperti, bisogna lavorare su più fronti. Il consiglio di Biffi è quello di “rivedere i contenuti formativi” per dare alle persone gli strumenti adatti per ritagliarsi un percorso professionale anche in un mondo ad alto tasso di innovazione, dando spazio non solo alle materie Stem, ma anche a logica e filosofia. Per colmare quelle lacune che fanno sì che oggi, in Italia, ci siano 1,2 milioni di posti di lavoro vuoti perché mancano candidati competenti. In secondo luogo, serve elaborare un nuovo diritto del lavoro, che comprenda per esempio gli smart contract. E che superi quello attuale, che – parole di Ichino – “non solo è inadatto a proteggere il lavoro del futuro, ma è anche un ostacolo al suo sviluppo”, perché aiutare le persone a restare aggrappate al vecchio lavoro “significa mandarle in un vicolo cieco”. Infine, sono necessari investimenti, a partire dall’Intelligenza Artificiale. Per dirla con Bentivogli: “Smettiamola con la tecnofobia che affligge il nostro Paese”.

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