Skip to main content

L’economia sostenibile alla prova della permacrisi

Gli anglosassoni, e gli statunitensi in particolare, amano gli acronimi evocativi. Uno molto pertinente all’attuale scenario internazionale è Vuca, che sta per volatility (volatilità), uncertainty (incertezza), complexity (complessità) e ambiguity (ambiguità). Secondo la rubrica Bartleby di The Economist del 6 gennaio 2024, questo acronimo rappresenta le caratteristiche di permacrisis che connotano l’attuale fase di Quarta Rivoluzione industriale (per la quale egli conia l’improbabile neologismo permavucalution), destinata a svilupparsi in due fondamentali macro-ambiti con cui deve confrontarsi anche l’Industria 5.0: l’Intelligenza Artificiale (AI) e il cambiamento climatico, in un contesto reso tanto più difficoltoso quanto maggiore è la scarsità di ‘talenti’, cioè di manager in grado di “vedere opportunità dove altri non vedono altro che enormi pericoli”.

Letteralmente, permacrisis sta per “crisi permanente”, da intendersi però non in senso necessariamente negativo, bensì come periodo esteso di instabilità e insicurezza, foriero quindi di evoluzioni potenzialmente anche positive, per quanto al momento imprevedibili. Non è un caso che il dizionario americano Collins l’abbia designata come ‘parola dell’anno’ del 2022, e certamente il 2023, che ha visto aggiungersi la guerra di Gaza e poi i problemi di navigabilità del Mar Rosso, ha confermato la centralità del problema.

Intelligenza Artificiale e occupazione

L’AI è oggi al centro di notevolissimi interessi, conseguenti agli enormi investimenti di cui è fatta oggetto, soprattutto negli Usa e in Cina. Essi portano spesso a presentarla come un fenomeno che non è affatto nuovo, piuttosto che (e sarebbe più corretto) come la più recente espressione di quella “delega tecnologica” (per citare la felice espressione coniata già oltre 20 anni fa da Gianfranco Dioguardi) che ha visto, e vede tuttora grazie all’informatica, sempre più compiti trasferiti dall’uomo alla macchina (sia materiali, con i robot nel manifatturiero, sia immateriali, come con l’home banking).

L’impatto di tutto ciò sull’occupazione è da tempo oggetto di ampi dibattiti e approfondite analisi. Uno studio di due ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, pubblicato nel 2013 e molto citato in letteratura, stimava la probabilità di sostituzione artificiale nei successivi 10-20 anni per le 702 attività lavorative considerate dal Census (l’equivalente statunitense della nostra Istat), valutando che il 47% dei posti di lavoro Usa fosse a rischio di sostituzione.

Successivi studi hanno ridimensionato un po’ questi valori, con stime che, comunque, non sembrano scendere mai sotto il 20% circa. Eppure, almeno per il momento, i dati sull’occupazione contraddicono queste previsioni: nei Paesi del G7 siamo passati da tassi di disoccupazione oscillanti intorno al 6-7% nel ventennio a cavallo del 2000, agli attuali livelli, attorno al 4%. Come mai?

Già nel 1987, l’economista premio Nobel Robert Solow aveva rilevato il paradosso affermando: “si può vedere l’era dei computer dappertutto, tranne che nelle statistiche di produttività”. Ed effettivamente la situazione è estremamente diversificata: se è vero che in molti ambiti produttivi la ‘robotizzazione’ (materiale e immateriale) continua a ridurre l’apporto umano, vedendo aumentare quindi la produttività dei lavoratori non espulsi, la Gig economy moltiplica le occasioni di ‘lavoretti’, come per i rider e i dog-sitter, spesso part-time (all’aumento dell’occupazione non corrisponde infatti un pari aumento delle ore lavorate) e sempre, o quasi, sotto retribuiti, e quindi a basso valore aggiunto e bassa produttività.

Gli ultimi sviluppi dell’AI propriamente detta sembrano mettere a rischio soprattutto le attività che apparivano meno suscettibili di automazione, come l’informazione e l’intrattenimento. In un’indagine del febbraio 2024 del Census statunitense, alla domanda se avessero fatto ricorso all’AI almeno una volta nelle ultime due settimane, hanno risposto affermativamente il 18% delle imprese operanti nel settore dell’informazione, il 13% di quelle dei servizi professionali, ma meno del 3% di quelle del manifatturiero. E dobbiamo ancora verificare se (e quando) le previsioni più apocalittiche, o comunque rivoluzionarie, si realizzeranno, al di là delle più che legittime preoccupazioni sulla produzione di immagini e audio falsi a scopo disinformativo o addirittura criminale.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Marzo 2024 di Sistemi&Impresa.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)