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Manifattura e caro energia: l’impatto dei rialzi sulle attività di fabbrica

L’instabilità politica e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno causato un rialzo significativo dei costi dell’energia che, combinato al rincaro delle materie prime, penalizza enormemente l’attività delle imprese manifatturiere italiane. Assistiamo a un rialzo dei prezzi, in realtà, da molto prima della guerra, come ha sottolineato Francesco Ravazzolo, Professore di Econometria presso la Libera Università di Bolzano e Head of Department of Data Science del BI Norwegian Business School, intervenuto al convegno virtuale Fare e gestire imprese verso un’economia di guerra organizzato dalla casa editrice ESTE (editore del progetto FabbricaFuturo e del nostro web magazine). 

Gli aumenti di gas, petrolio ed elettricità sono “indicativi della situazione economica attuale”, secondo il docente. Per quanto riguarda il gas, la crescita è iniziata all’inizio dell’autunno 2021 e oggi si è arrivati a circa 100 euro per megawattora, dopo aver toccato un picco di 250 nel marzo 2022. Diversa, invece, la situazione per il petrolio, il cui prezzo era crollato con l’esplosione della pandemia nel 2020 per poi risalire fino a 100-110 dollari al barile (equivalenti a circa 96-105 euro) che “sono valori alti, ma non da record”, come ha sottolineato Ravazzolo ricordando che nel 2008 si era arrivati a 150-160 dollari (145-154 euro) al barile. Del resto il petrolio è un asset globale e viene esportato anche da altri Paesi oltre alla Russia. L’elettricità, invece, ha registrato un rialzo già da agosto-settembre 2021, arrivando con lo scoppio della guerra in Ucraina a toccare i 350-400 euro per megawattora, attestandosi su valori medi che non sono mai stati così alti. 

I tre mercati, dunque, hanno visto andamenti differenti, ma per capire le ragioni dei rincari, serve fare qualche passo indietro rispetto alla situazione attuale: “La causa è da cercarsi nella pandemia e nei conseguenti lockdown attuati in tutto il mondo, che hanno rappresentato un periodo di bassi investimenti e richieste di materie prime al minimo”, ha spiegato il docente. Allo stesso tempo in Europa è cresciuta la preoccupazione sul cambiamento climatico e sulle emissioni di anidride carbonica, è aumentata l’attenzione verso le energie rinnovabili, è calato l’interesse per le fonti combustibili e pertanto si sono ridotte le estrazioni, causando una scarsità di disponibilità. La guerra – come ha evidenziato Ravazzolo – è arrivata in un momento già di difficoltà, caratterizzato da una scarsa offerta nei mercati internazionali delle materie prime. 

Puntare sullo sviluppo locale 

Per sostenere la situazione, il Governo ha promosso alcune misure, come il taglio degli oneri di sistema e delle accise sui carburanti, introducendo agevolazioni fiscali per le aziende energivore, categoria di cui fanno parte molte imprese manifatturiere.  

Questi interventi sono finanziati attraverso una maggiore tassazione dei player, che in questo momento stanno registrando extra profitti, cioè coloro che operano nelle energie rinnovabili, nel mercato elettrico e nel sistema carburanti. Si sta poi discutendo di riaprire le centrali a carbone e reintrodurre gassificatori per produrre energia elettrica usando gli scarti come materia prima. Le misure introdotte, però, non possono persistere nel medio e lungo termine, poiché comporterebbero una spesa insostenibile da parte dello Stato e non sono compatibili con una politica energetica a minore impatto ambientale. “È quindi urgente rafforzare l’impulso alle energie rinnovabili, stimolare la ricerca relativa all’energia nucleare, modificare il funzionamento del mercato elettrico”, ha commentato Ravazzolo. 

Che cosa dovrebbero fare, dunque, le imprese per reagire? “Una soluzione è puntare su uno sviluppo più sostenibile e maggiormente locale, piuttosto che su un sistema di intensi scambi internazionali”, ha proposto il docente. Sulla carta, la strategia è ineccepibile, ma è chiaro che nella pratica è soggetta a enormi incertezze: è noto che in Italia ci sono interi settori produttivi ormai scomparsi (per esempio, l’Italia non è più un centro privilegiato di produzione dell’industria del “bianco”, cioè gli elettrodomestici, dopo lo spostamento delle attività produttive verso Est) e ricrearli potrebbe essere inefficiente, oltre che costoso. “Siamo un Paese che fabbrica prodotti di alta qualità, e il Made in Italy è riconosciuto in tutto il mondo, ma poiché gli scambi internazionali di solito si basano su un equilibrio di import-export, potrebbe diventare difficile esportare senza immettere merci estere sul mercato nazionale”, ha commentato Ravazzolo. 

La situazione economica già complicata, acuita dal conflitto, sta dunque portando le aziende a ragionare su come sviluppare il mercato locale, diversificando il più possibile i fornitori. E l’invasione dell’Ucraina – se ancora ce ne fosse bisogno dopo la pandemia da Covid-19 – ha chiarito l’esigenza di slegarsi dalla dipendenza da mercati caratterizzati da così forte instabilità.