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Modelli di business e competenze: come cambia il lavoro con il 4.0

Il tentativo di riassumere in un breve contributo le profonde e variegate trasformazioni che sta vivendo il mondo del lavoro ormai da diversi decenni potrebbe apparire troppo pretenzioso. E in effetti lo è. Ma è possibile identificare alcune dorsali fondamentali lungo le quali muoversi restringendo il campo agli impatti della trasformazione digitale e prendendo come oggetto di osservazione soprattutto l’impresa manifatturiera.

Per semplificare il discorso si potrebbe far riferimento alle trasformazioni del lavoro nell’Industria 4.0 che sono almeno di due tipologie: quantitative e qualitative. Il dibattito pubblico e mediatico degli ultimi anni si è concentrato soprattutto sulle prime, generando quella contrapposizione – in fondo sterile – tra approcci ottimisti e approcci catastrofisti riguardo all’impatto delle tecnologie 4.0 sulla quantità dei posti di lavoro. Dibattito ‘sterile’ perché fondato soprattutto su previsioni relative a lavori che oggi esistono e che immaginiamo potranno, con grande probabilità, essere sostituiti dall’introduzione e dell’adozione di alcune tecnologie, ma che non prende in considerazione i potenziali lavori che potranno generarsi e che oggi ancora non possiamo immaginare.

Il lavoro non finisce, si trasforma

Modelli business industria 4.0Questo non significa rispondere agli allarmi apocalittici con un altrettanto esagerato ottimismo cieco, quanto piuttosto riconoscere che non siamo di fronte a un fenomeno caratterizzato unicamente dalla distruzione, ma dalla trasformazione. In effetti la sfida di un ricercatore oggi dovrebbe essere quella di passare dall’affermazione “la tecnologia distrugge lavoro” a “la tecnologia distrugge lavori, trasformando il lavoro”. Sembra poco, ma tutto si racchiude in questa piccola differenza sostanziale.

Non è certo una novità che le professioni siano state rese obsolete dall’avvento di tecnologie e che, in particolare relativamente all’utilizzo della forza fisica, potevano sostituire con strumenti meccanici il lavoro umano. Così come non è una novità il calo della percentuale di lavoratori occupati nel settore industriale, costante in Italia dal 1980 e già dagli Anni 50 negli Usa. Recentemente uno studio Ocse ha mostrato come, a differenza di altri studi che prevedevano l’elevato rischio di scomparsa per la metà delle professioni attuali, il rischio di totale eliminazione riguardi il 9% dei lavori, mentre percentuali molto superiori (circa il 35%) sarebbero i lavori che andranno incontro a una profonda trasformazione derivante dall’automazione di determinate mansioni.

Non sono poche le evidenze empiriche sul passato né le previsioni sul futuro disponibili che mostrano come la tendenza sia stata – e probabilmente sarà – quella di una trasformazione e una sostituzione. La differenza con il passato si dovrebbe riscontrare in due elementi: da un lato i tempi di sostituzione molto più rapidi, dall’altro la potenzialità di sostituire attività un tempo considerate un porto sicuro in quanto non routinarie e a forte valore aggiunto intellettuale.

A fronte di questo scenario, è probabile che il concetto stesso di Industria 4.0 acquisti un valore particolare. Infatti, sebbene nato come strategia di politica industriale tedesca, ha il merito di aver inquadrato il tema della digitalizzazione dal punto di vista dei cambiamenti strutturali dei modelli di business, delle logiche di produzione e di consumo, e quindi delle modalità di lavoro. Inteso all’interno di un contesto più generale, il fenomeno tecnologico innanzitutto acquista il proprio spazio all’interno di una complessità di fattori che spesso vengono dimenticati, come quello del contesto internazionale e quello demografico.

Inoltre risulta più semplice abbattere muri e confini propri di un modello di impresa novecentesco che incideva non poco nel pensare e nell’organizzare il lavoro. Il lavoro in questo contesto sembra acquistare un valore differente a seconda dei modelli produttivi che si sviluppano. La digitalizzazione dei processi accresce, come ormai avviene dagli Anni 70, la componente intellettuale della prestazione e con essa qualifica in tal senso le professionalità richieste. L’evoluzione degli occupati in Italia mostra come nel corso degli ultimi 15 anni siano le professioni intellettuali, più ancora di quelle tecniche specializzate, a essere cresciute parallelamente a una diminuzione del numero degli operai.

Formazione per la (ri)qualificazione

Modelli business industri 4.0Il nuovo scenario richiede rapide e precise azioni di riqualificazione e formazione continua per poter adattare la forza lavoro ai nuovi processi. E proprio su questo aspetto emerge una delle caratteristiche più interessanti della trasformazione contemporanea. Se infatti le tecnologie si evolvono molto rapidamente, con esse aumenta il rischio di obsolescenza di competenze fino a poco tempo prima fondamentali. Ciò fa sì che un’eccessiva attenzione sull’iper-specializzazione della forza lavoro – in particolare di quella in entrata che si riflette sui contenuti della didattica nei percorsi formativi – rischi di generare un effetto negativo. Risulta dunque più importante la capacità di adattamento e di apprendimento di nuovi processi che nel corso del tempo si affermano rispetto alla conoscenza dettagliata di strumenti che in pochi anni scompaiono.

In questo senso sia le preferenze delle imprese sia le indagini scientifiche mostrano come ci sia l’esigenza di soggetti integrali piuttosto che di specialisti. Lo scenario di complessità, che Industria 4.0 rappresenta in modo efficace, esige persone in grado di sapersi orientare all’interno di tale scenario, e questo riguarda la gestione dei processi, ma anche dimensioni più personali come la gestione di tempi e luoghi di lavoro all’interno di una realtà che rischia di fagocitare tutti in un circolo di iper-connessione costante.

Sul fronte della qualità del lavoro, un ulteriore cambiamento epocale riguarda – e riguarderà – l’organizzazione del lavoro e in particolare le mansioni e la loro esecuzione. Infatti le mansioni nel fordismo – e anche nel post fordismo – si sono qualificate come direttamente connesse a competenze (a volte una sola) specifiche ed erano l’oggetto organizzativo principale. Un insieme di mansioni, basate su alcune competenze, si applicava a un determinato processo produttivo, il tutto rappresentato all’interno di mansionari e organigrammi che mostravano plasticamente l’organizzazione e il rapporto tra persone e tecnologia (processi).

I cambiamenti avvenuti già negli Anni 80 mostravano la difficoltà di questo modello, soprattutto a causa della sua rigidità che non consentiva, anche a fronte al potenziale delle nuove tecnologie introdotte, di adattare i sistemi produttivi nel loro complesso alle esigenze di una domanda flessibile. Uno dei primi elementi di discontinuità introdotti da alcune imprese è proprio relativo alle mansioni che da azioni dettagliatamente definite e classificate – il più possibile immutabili e meramente fisico-esecutive – si ampliavano a compiti intelligenti, nei quali veniva messa in gioco anche la componente intellettuale del lavoratore e con essa la sua responsabilità, autonomia e anche creatività.

Ciò significava valorizzare le competenze trasversali all’interno di mansioni anch’esse trasversali. E proprio questo è quello che sembra essere necessario con l’introduzione del paradigma di Industria 4.0 all’interno del quale il concetto stesso di mansione – e la rigidità in esso insita – lascia spazio a quella di ruolo inteso come un ‘copione’ nelle mani del lavoratore che ha la responsabilità di interpretarlo a seconda delle circostanze mutevoli che si verificano nella rinnovata complessità dei processi produttivi.

I ruoli si caratterizzano dal possesso di quell’insieme di competenze tecniche e trasversali in grado di consentire ai singoli lavoratori – o ai gruppi da essi costituiti – di adattare le loro attività a seconda della domanda di prodotti e servizi che proviene dal mercato e dal variegato insieme dei consumatori. Acquista a tal riguardo una centralità inedita la dimensione dell’interdisciplinarietà dei lavoratori al fine di costruire gruppi e ambienti di lavoro flessibili e in grado di poter rispondere alla complessità e alla mutevolezza dei processi.

Così come acquista centralità l’interdisciplinarietà del profilo stesso del lavoratore, verso la costruzione e la maturazione di figure ibride in grado di partecipare attivamente a diverse fasi dei processi, con le relative competenze richieste. Questi elementi e questi cambiamenti – qui solo accennati – devono al più presto entrare ai primi posti delle preoccupazioni dei decisori politici per poter essere affrontati con l’urgenza necessaria.

Difficile infatti pensare di governare un cambiamento epocale continuando a mettere mano a vecchi strumenti normativi e fiscali, senza ripensarli interamente. E per questo motivo occorre sempre di più una sinergia tra attori diversi, nella consapevolezza che il cambiamento possa essere affrontato solo insieme con coloro che ne vivono gli impatti tutti i giorni e quindi attraverso un raccordo tra imprese, sindacati, istituzioni locali, scuole, università, centri di ricerca e di chi si occupa di servizi, pubblici o privati, per il lavoro.