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Nella trasformazione digitale il management conta

| Paolo Pasini |

Nei tempi più recenti, prestigiose riviste internazionali hanno incominciato a pubblicare articoli che fanno un resoconto in parte negativo delle strategie e degli investimenti digitali degli ultimi 10 anni e che invitano a un senso critico nei confronti della Digital transformation e della applicazione di molte tecnologie digitali in auge in questa nuova fase di digitalizzazione (per esempio, relazioni tra Intelligenza Artificiale ed etica o l’impatto della robotica avanzata sull’occupazione o della sensoristica fissa e mobile sulla data privacy).

Di quante sperimentazioni, progetti ed esperienze di trasformazione digitale si sente parlare a convegni o seminari e, poco tempo dopo, non le si ritrovano più in azienda, perché non hanno ‘scalato’, perché ‘dormienti’ in qualche sistema di Information Technology (IT) interno o in cloud oppure addirittura nelle slide che le hanno raccontate?

Anche l’ispirazione ai casi oramai un po’ scontati della continua e veloce innovazione dei big player del web si è riportata verso un sano realismo, domandandosi quanta di quella esperienza sia realmente replicabile nelle imprese tradizionali (non digital native) che stanno ricercando correttamente il loro percorso specifico di digitalizzazione e di trasformazione digitale. Fino a che punto i loro modelli competitivi, operativi e organizzativi (oltre che tecnologici), possono realmente ispirare i percorsi e i modelli di digitalizzazione delle imprese italiane, e soprattutto delle Piccole e medie imprese (PMI) manifatturiere Business to business (B2B)?

La trasformazione digitale implica un forte cambio di paradigma

Certamente in questi anni si è preso coscienza che digitalizzazione e trasformazione digitale sono due cose diverse, forse a volte confuse: digitalizzare un prodotto-servizio arricchendolo di dati, intelligenza o capacità di interazione con il contesto o con un cliente, oppure digitalizzare un processo, eliminare fasi inefficienti o documenti analogici e ottimizzarlo, sono progetti indiscutibilmente importanti. La trasformazione digitale va oltre: implica un cambiamento forte di paradigma nell’organizzazione del lavoro, nei processi operativi, industriali, di relazione con il mercato, di raccolta e analisi dei dati, di decisione, nella esperienza di un cliente o un dipendente, nel modello di business adottato, e richiede una indispensabile e una nuova cosiddetta “Digital readiness”.

Quest’ultimo elemento fondamentale fa riferimento alla componente ‘persone e organizzazione’ della Digital transformation e comprende una serie di caratteristiche attitudinali e di comportamento al cambiamento, di mindset, di leadership diffusa, di competenza, di approcci progettuali (agili), di gestione dell’errore e dell’apprendimento, di una maggiore predisposizione alla collaborazione e cooperazione trasversale, cross-funzionale e inter-aziendale (‘open’ con attori esterni), che creano il necessario contesto organizzativo dove può generarsi l’innovazione digitale, svilupparsi, scalare e avere elevati tassi di adozione reali in azienda.

Questo fatto, unito all’osservazione che molte aziende italiane, per ora a campione casuale, hanno osservato modesti risultati dai progetti di Digital transformation, da quelli di Digital innovation o hanno riportato un problema di misurazione oggettiva dei risultati ottenuti, fanno sorgere un dubbio di fondo: in questa fase di digitalizzazione un po’ ‘affannosa’ forse ci siamo dimenticati che i fondamenti storici del management aziendale contano ancora. Se riflettiamo un attimo, anche in passato l’IT ha sempre sfidato le imprese e creato nuove opportunità e rischi. Certamente i ritmi e i tempi sono diventati più intensi (in riferimento alla cosiddetta “esponenzialità”), qualche metodo nuovo, o rivitalizzato può essere indubbiamente utile come facilitatore (si pensi al design thinking, service design,Aagile project management, co-creation, test & learn), ma nuovi metodi, nuove tecnologie e nuovi dati digitali finora non hanno garantito il successo generale della trasformazione digitale in molti dei suoi ambiti. E anche la mancanza di skill o di normative adeguate, che amplificano l’incertezza del contesto in cui si inserisce la trasformazione digitale perseguita, ma non sono sufficienti per spiegare i risultati poco soddisfacenti.

Alcuni esempi forse possono essere utili per diversi motivi: per stimolare una riflessione costruttiva, non ‘luddista’, nel percorso di evoluzione digitale delle nostre imprese, più spesso incrementale che disruptive; per rivalutare i fondamenti del management aziendale che sembrano ogni tanto dimenticati; per guardare avanti con un sano realismo e ottimismo, a un cambiamento digitale più ‘sostenibile’ a livello economico, occupazionale, sociale e ambientale.

Mobile App dei brand aziendali

Molti marketing manager e digital manager hanno compreso quanto difficile sia scalare le Top 7 delle mobile App che ogni individuo utilizza maggiormente sui suoi dispositivi mobili; molte App dei brand presentano ancora numeri molto bassi di download, valutazioni (stelline) molto basse e recensioni pesanti, con danni anche di reputazione aziendale non indifferenti: migliori business case (qual è la reale adozione potenziale del target in ambiti competitivi molto affollati, quali sono le reali conversioni e nuove fonti di generazione di fatturato, al netto della cannibalizzazione tra canali digitali attivi) e valutazioni di brand equity, andrebbero condotte più attentamente in molti casi, superando un certa superficialità e la logica del ‘lo fanno tutti’.

La diffusione delle varie Data analytics e la costruzione delle cosiddette Data-driven organization, ancora una volta, stanno dimostrando che il problema non sono le nuove tecnologie disponibili, i nuovi dati da analizzare e le skill da reperire, ma sono, come in passato, i centri di competenza da progettare e da far funzionare, i processi decisionali e i ruoli da definire chiaramente tra i vari specialisti della data analysis (non solo i data scientist) e i decision maker aziendali che devono utilizzare i risultati delle analisi e delle insight.

Persistono due condizioni ‘evergreen’ della data analysis (fin dai tempi dei tradizionali sistemi di Business intelligence, ancora vivi e vegeti assolutamente nelle cosiddette “Descriptive e Diagnostic analytics”): la necessità di un’architettura aziendale di Data management, il più integrata possibile per garantire la unicità, la qualità e la protezione del dato; i risultati di queste analisi, le insight o le prediction devono essere interpretate e applicate in azioni da un decision maker umano, spesso non specialista di statistica o modellizzazione matematica, non dal data scientist che le ha prodotte (le tecniche di storytelling e di data visualization avanzata possono aiutare, ma non risolvono il problema e spesso si scopre che andare oltre ai classici grafici di base, alle classiche distribuzioni di frequenza, medie e mediane, ci si perde per strada l’interlocutore); le più avanzate prescription analytics e automated analytics sono per ora ancora impiegabili in ambiti decisionali definiti e conosciuti, con un numero limitato di eccezioni, con una dinamica contenuta delle variabili e degli eventi in gioco e dove i contenuti sono più facilmente taggabili.

L’automazione dei processi di decisione deve ancora fare i conti con il numero di eccezioni che non sa gestire nella storia che conosce (che siano serie storiche di vendita o casistiche di domande-richieste a un contact center) e nei dati in generale che sono stati forniti per ‘allenare e istruire’ gli algoritmi di Machine learning. Nei fenomeni fisici dove la reazione in tempo reale a un evento è rilevante, queste applicazioni di automazione decisionale dimostrano il loro valore da tempo; nei fenomeni sociali o più tipicamente nel management d’azienda (che non siano i classici processi strutturati amministrativi) è ancora necessario fare i conti con l’esperienza umana, con l’accountability aziendale di una decisione, con alcune ‘sensibilità e intuizioni’ decisionali che non sono facilmente codificabili nel software.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Dicembre 2022 di Sistemi&Impresa.
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