Robot e AI, alleati o nemici in fabbrica?

La robotica continua ad avanzare in tutto il mondo, sia pure a ritmi fortemente differenziati. In Corea del Sud c’è un robot ogni 10 lavoratori; in Giappone uno ogni 25; in Cina uno ogni 30; negli Usa e in Europa occidentale uno ogni 40. Elon Mask – con l’approc­cio visionario cui ci ha abituato – ha recentemente dichiarato che prevede, per gli stabilimenti di Tesla, di raggiungere e superare il rapporto uno a uno tra robot umanoidi e lavoratori umani, senza però pre­cisare quando pensa di realizzare questo risultato.

In termini assoluti, secondo i dati diffusi dalla Federazione internazionale della robotica (IFR), in tutto il mondo sono attualmente in funzione circa 4 milioni di robot industriali: nel solo 2022 sono stati complessivamente installati circa 570mila nuovi robot, con un aumento del 10% rispetto al 2021, in linea con il trend dell’ultimo quinquennio, che ha registrato una crescita annua media dell’11%, nonostante il rallentamento dovuto al Covid. L’Italia nel 2021 ha raggiunto un picco molto significativo, superando le 14mila nuove installazioni, in aumento del 65% rispetto al 2020 (erano solo 4mila, 10 anni fa). È questo l’incremento percentuale più elevato in Europa, che ha registrato un valore complessivo del 24%, con contributi molto differenziati: +7% in Francia, +6% in Germania, addirittura -7% nel Regno Unito (Figura 1).

A livello globale, i settori di maggior impiego sono naturalmente quelli caratterizzati da produzioni di massa di tipo fordista, con elevata ripetitività dei processi produttivi: l’Elettronica in primis, seguita, nell’ordine, da Automotive (in forte crescita nelle linee destinate alla produzione di veicoli elettrici), Metalli e Macchine, Plastica e Prodotti chimici, Cibo. Ancora marginale (pesa solo il 7,5% del mercato globale), ma con un trend di crescita molto forte (più 50% nel 2021 rispetto al 2020) è il settore della cosiddetta ‘robotica collaborativa’: i cobot (o co-ro­bot) concepiti per interagire fisicamente, in piena sicurezza, con gli esseri umani in uno spazio di lavoro condiviso. È questo un ambito estremamente pro­mettente, perché può trovare potenziali applicazioni in contesti industriali, come quello Manifatturiero, caratterizzati da ben più ampia variabilità produt­tiva, anche nelle dimensioni aziendali medie (o addirittura medio-piccole), così comuni nel nostro Paese.

Pure nel settore dei servizi si registrano trend di forte crescita (anche se con numeri assoluti ancora ridotti): +85% nell’Hospitality, +45% nel Trasporto e nella Logistica, +31% nei Servizi di pulizia, +23% nella Medicina e Cura della persona, +21% nelle Ispezioni e Manutenzioni.

Si teme la perdita di lavoro, ma la disoccupazione è ai minimi

Se questo è lo scenario di diffusione dei robot, quali impatti possiamo attenderci dunque sull’occupazio­ne? In che misura i robot ‘sostituiscono’ i lavoratori, aumentando la disoccupazione? Rischiamo di assi­stere a rivolte luddiste come quelle che, all’inizio del XIX secolo, portarono alla distruzione di molti telai in Inghilterra. L’idea che le macchine possano sostituire il lavoro umano ha origini antichissime. Già Aristotele, nel libro primo della Politica affermava: “Se ogni stru­mento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo […] così anche le spole tessessero da sé e i plettri toccas­sero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati né i padroni di schiavi”. Per 2mila anni questa è rimasta una curiosa fantasia, fino a quando la Prima Rivoluzione industriale (e poi le successive) ne hanno avviato la potenziale realizzazione.

John Maynard Keynes, in un discorso letto agli studenti del Winchester College nel 1928, intro­dusse il concetto di disoccupazione tecnologica: “Abbiamo contratto un morbo, la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove”. Keynes ipotizzava che – entro un secolo – gli orari di lavoro potessero ridursi a sole 15 ore settimanali. Naturalmente ciò, almeno fino a oggi, non è avvenuto, in quanto l’aumento di produttività (che pure è stato circa il doppio di quello ipotizzato dall’economista britannico) è sfociato nella crescita esponenziale delle produzioni (sia in quantità sia, soprattutto, in creazione di nuovi prodotti), piutto­sto che nella riduzione dell’impiego di manodopera a parità di quantità prodotte: tra il 1700 e il 2008 il Prodotto mondiale è cresciuto di 137 volte, a fronte di una crescita della popolazione di ‘solo’ 11 volte circa, il che significa che la produzione di ricchezza pro capite è aumentata di un fattore moltiplicativo pari a 12.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Aprile 2023 di Sistemi&Impresa.
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