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La pasta che viene dalla montagna: Felicetti, artigianalità e innovazione

| FabbricaFuturo |

Acqua e aria delle Dolomiti. E grande attenzione a tutte le materie prime. Da oltre un secolo dalla Val di Fiemme il Pastificio produce i suoi prodotti. Esportando il 70% della produzione. Grazie a robot e rispetto dell’ambiente.

Intervista a Riccardo Felicetti, CEO di Pastificio Felicetti a cura di Dario Colombo

Da oltre 100 anni ai piedi delle Dolomiti, nel punto in cui il Torrente Travignolo si getta nel Fiume Avisio, il Pastificio Felicetti domina la Val di Fiemme. Era il 1908 quando Valentino Felicetti, capostipite di una famiglia di imprenditori oggi giunta alla sua quarta generazione, decise di fondare a Predazzo in provincia di Trento, a mille metri di altezza, il suo piccolo laboratorio di produzione di pasta: dopo aver assistito a un secolo di storia, attraversato due guerre mondiali e cambiato nazionalità (dopo il 1918 il territorio austro-ungarico venne annesso al Regno d’Italia) senza spostarsi di un metro, ora di quella bottega rimane ben poco, se non la passione per la ricerca dell’eccellenza. La famiglia del fondatore è ancora al timone, ma sono state inserite, nel corso degli ultimi anni, alcune figure manageriali all’interno dell’organiz zazione. Così, il Pastificio Felicetti è ora un’impresa conosciuta in tutto il mondo per la sua pasta monograno, tanto che il mercato di riferimento è quello straniero che pesa per il 70% del fatturato; inoltre se a inizio 900 il laboratorio era ai margini della città, oggi lo stabilimento si è ritrovato inglobato in essa, dopo essere stata spettatore dello sviluppo di Predazzo, dove attualmente trovano spazio quattro linee di produzione spalmate su 5mila metri quadrati che, lavorando a ciclo continuo, realizzano 60 tonnellate di pasta al giorno in oltre 100 formati diversi, con la massima attenzione alle materie prime. “L’azienda si trova ancora qui dove il mio bisnonno Valentino l’ha fondata”, ricorda Riccardo Felicetti, attuale CEO, abituato a rispondere a chi gli chiede perché la sua impresa sia rimasta in mezzo alle montagne del Trentino: “In origine i pastifici ve nivano costruiti prevalentemente vicino ai porti perché il grano arrivava in gran parte via mare e fino al 1917 prevalentemente dall’Ucraina attraverso il Mar Nero; da noi arrivava durante la bella stagione e consentiva alle persone che vivevano le valli alpine di nutrirsi anche in inverno; lavorare qui, per noi da sempre significa essere partecipi di un dialogo incessante con la natura”.

 

Quali sono i benefici di produrre ai piedi delle Dolomiti?
Ci siamo ritrovati a scegliere se puntare sulla qualità degli ingredienti oppure sulla comodità della logistica. Abbiamo scelto di privilegiare i prodotti e le materie prime, quindi abbiamo preferito rimanere vicino all’acqua e all’aria con cui produciamo la pasta, piuttosto che puntare sui vantaggi commerciali derivanti dall’operare in un grande distretto industriale.

Quindi il segreto del successo è nella qualità delle materie prime?
Acqua e aria sono prodotti che non si possono trasportare, ma si devono utilizzare nel loro luogo di origine: il grano si può trasportare e, con le corrette procedure, può essere conservato per lungo tempo. Per il nostro Pastificio che punta sulla tutela delle risorse naturali, sulla biodiversità, sul rispetto dell’equilibrio degli ecosistemi e sulla salvaguardia dell’ambiente non era possibile pensare di spostarsi: questa scelta è stata apprezzata dai consumatori, perché chi consuma la nostra pasta apprezza che sia fatta in mezzo alle montagne e con ingredienti naturali. E mi riferisco alle materie prime selezionate da produttori che utilizzano metodi di coltivazione responsabili.

Il mercato approva le vostre scelte?
Negli ultimi 20 anni abbiamo moltiplicato per cinque il fatturato e nel 2015 abbiamo raggiunto quota 35 milioni di euro; nel 2016 puntiamo a crescere di circa il 7%, mantenendo la produzione di 20mila tonnellate annue. Punteremo al mix di prodotti che tenderanno sempre più verso l’alta specializzazione che ci caratterizza da almeno 15 anni.

Oggi per avere successo serve guardare oltre confine: vi rivolgete all’estero?
L’Italia rappresenta per noi il 30% del fatturato e buona parte dei prodotti sono di- stribuiti in Trentino. L’estero vale il 70%: siamo presenti nel Nord Europa e in Nord America, ma puntiamo a spingerci anche in altre aree, come l’Australia, il Sudafrica e l’Estremo Oriente.

Perché puntare sui mercati extra Italia?
La scelta è stata dettata da esperienze maturate mezzo secolo fa da mio padre che aveva iniziato a esportare prima in Austria e poi in Germania: aveva la vocazione del pioniere e preferiva cercare nuovi mercati piuttosto che entrare in competizione in quelli già maturi; quindi ha esportato il ‘concetto della pasta’ iniziando da Innsbruck. Poi la strategia di export si è ampliata, con conseguenti opportunità e ostacoli, non tanto linguistici quanto legati alle abitudini alimentari: si tratta di ‘difficoltà’ che conosciamo e da decenni ci alleniamo per superarle.

Come avviene il processo di produzione della pasta?
Pur mantenendo un’anima artigiana abbiamo automatizzato la produzione: a fine linea ci sono tre robot antropomorfi e il sistema di immagazzinamento è automatizzato, con la gestione autonoma del posizionamento dei prodotti. Ma l’automazione sarebbe impossibile senza la componente umana. Gestiamo, infatti, 41 tipi di materie: adattiamo gli impianti alla specificità dei prodotti e questo ci fa mantenere l’atteggiamento artigiano nonostante l’aspetto industriale. È una scelta dettata dal fatto che il nostro consumatore chiede di avere un prodotto sano, sicuro ed economicamente competitivo. Insomma, abbiamo creato uno stabilimento automatizzato, ma attento ai valori classici di un’azienda che cura l’arte dell’artigianalità.

È una via italiana alla Industry 4.0…
Il nostro obiettivo è rendere moderno un prodotto tipicamente legato alla tradizione e che vogliamo mantenga la sua storia; pensiamo all’innovazione di utilizzo, per slegarne la fruizione dai classici momenti del pranzo e della cena, ma anche per smarcarsi dai canoni, come quello delle miscele dei grani duri. E per farlo abbiamo anche sdoganato il pregiudizio di chi non crede che si possa produrre pasta in mezzo alle Dolomiti.

A proposito di territorio, tra i vostri valori c’è quello di agire nel rispetto dell’ambiente: come si concilia con i moderni metodi produttivi?
L’acqua per impastare i nostri prodotti è prelevata a 2mila metri d’altitudine: la pasta è poi fatta essiccare e l’acqua in eccesso è raccolta; tecnicamente sarebbe potabile e profuma di grano, ma abbiamo scelto di immetterla in un depuratore per questioni di sicurezza. Anche l’aria che secca i prodotti profuma di pasta, una volta fuoriuscita dalle celle: questo è l’unico residuo che immettamo nell’ambiente. Gli scarti umidi di produzione, infatti, sono riutilizzati nei dintorni per la produzione dei concimi, mentre gli scarti secchi sono usati come base per i mangimi.

Che tipo di energia alimenta lo stabilimento?
Il 90% dell’energia utilizzata è auto-prodotta: il sistema fotovoltaico ci approv vigiona di circa il 12%, mentre il restate 78% deriva dall’impianto di cogenerazione; quindi, partendo dal metano con cui alimentiamo gli impianti di essiccazione produciamo quasi l’intera energia per far funzionare lo stabilimento attraverso gli scambiatori di calore. L’attenzione all’utilizzo di fonti rinnovabili ci caratterizza da sempre: prima utilizzavamo l’acqua che passa vicino al pastificio.

L’attenzione alla sostenibilità, però, vi vede impegnati anche in altro: ci spiega?
Vogliamo favorire l’utilizzo di mezzi di trasporto ecologici e puntiamo a dotare l’azienda di colonnine per l’alimentazione delle auto elettriche; vogliamo finanziare sistemi per la mobilità sostenibile che abbia un impatto ridotto sull’ambiente, come le biciclette con pedalata assistita o il car sharing da mettere a disposizione tra gli operatori della valle. È un impegno che ci siamo dati perché chi lavora con noi non produca solo prodotti biologici, ma possa contribuire a mantenere inalterate le condizioni del territorio.

Anche in fase di costruzione dell’impianto siete stati attenti all’ambiente?
Abbiamo cercato di ridurre quanto più possibile le emissioni acustiche all’esterno dello stabilimento, mantenendo il silenzio della valle per rispetto di chi vive a Predazzo. Ma pure dal punto di vista estetico siamo stati attenti: per evitare che il magazzino, un gigante di 20 metri, avesse un impatto eccessivo con l’ambiente l’abbiamo interrato di otto metri.

Attenzione all’ambiente significa pure valorizzare competenze e talenti del territorio?
La nostra crescita in termini di fatturato è corrisposta anche all’aumento delle persone impiegate: oggi siamo 60, più una ventina di operatori coinvolti come indotto. Certo, nel corso del tempo sono cambiate le posizioni ricercate all’interno dello stabilimento: abbiamo sempre meno bisogno di operatori manuali e cerchiamo persone che svolgano funzioni di controllo e sappiano interagire con le macchine. Da una parte, quindi, servono competenze specifiche, ma dall’altra serve anche attenzione alla tradizione: ecco perché le macchine non potranno mai sostituire totalmente il lavoro dell’uomo.

Dove cercate i talenti da introdurre in azienda?
Vogliamo mantenere quanto più possibile vivo il nostro territorio, quindi cerchiamo chi ama questi luoghi e vuole tornare a vivere qui. Mi riferisco ai giovani che sono emigrati per studiare e che tornano a casa perché sono legati alla valle: per noi è una grandissima soddisfazione che ci permette di creare quella socialità che rende vivo il territorio. Inoltre, consente di far rimanere il reddito dove è maturato: il valore creato qui, rimane in questo ambiente.

Negli ultimi anni avete scelto di inserire alcune figure manageriali: perché questa decisione?
Attualmente siamo un’azienda mista, con i soci che restano attivi nel business. Tuttavia, all’aumentare della complessità è stato deciso di managerializzare alcune funzioni: parte del commerciale, il controllo qualità e l’amministrazione che rispondono al Consiglio di amministrazione formato dai componenti della famiglia. Ritengo che presto, probabilmente nell’arco di una decina di anni, queste figure diventeranno ancora più importanti. Eppure resta fondamentale che la famiglia resti presente, per creare la coesione tra management e proprietà. Anche se non è la conditio sine qua non per avere successo: non è importante il cognome che porti, ma le capacità che hai.