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Braccialetti Amazon, sì o no? Prima del confronto serve la conoscenza

“Mai i braccialetti di Amazon in Italia”, “No al caporalato digitale”, “Perché controllare le persone come fossero merci?”, sono solo alcuni dei tanti commenti sul braccialetto elettronico brevettato da Amazon, già nel 2016, per “liberare le mani” dei dipendenti da altri strumenti, ma di cui solo oggi si discute e in tono prevalentemente polemico.

Da una nota inviata dalla multinazionale alla redazione di ESTE sappiamo che questo strumento serve a migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti, ma che non è stato ancora introdotto: “Ogni giorno, in aziende in tutto il mondo, i dipendenti utilizzano scanner palmari per il controllo dell’inventario e per spedire gli ordini. Questa idea (i braccialetti, ndr), se e quando dovesse essere implementata in futuro, verrà fatto nel pieno rispetto delle leggi e delle norme, con il solo obiettivo di migliorare il lavoro di ogni giorno dei nostri dipendenti nei centri di distribuzione. Muovendo le attrezzature verso i polsi dei dipendenti, le mani vengono liberate dall’utilizzo degli scanner e gli occhi non devono più guardare lo schermo. Tutte le tecnologie che abbiamo implementato fino a oggi hanno contribuito al miglioramento delle condizioni di lavoro nei nostri centri di distribuzione”.

Certo, l’avvento di dispositivi indossabili non è una novità: per un breve, ma esaustivo excursus sull’uso del ‘braccialetti ante litteram’ in fabbrica rimandiamo alla riflessione sul tema a firma di Francesco Varanini, Direttore della rivista Persone&Conoscenze. 

Il confine labile tra l’uso della tecnologie e la tutela della privacy

Dunque, a oggi non è possibile stabilire il confine tra l’oggetto in sé, ossia il braccialetto di Amazon, e la sua applicazione in azienda. Così come è difficile intravedere la linea sottile tra riflessioni sul tema e le dichiarazioni fatte per alimentare le polemiche, visto che il lavoro è un argomento ‘ghiotto’ in clima pre elettorale.

Quale può essere, allora, la ‘bussola’ per orientarsi nel mare di parole scritte e dette sul tema? La Legge, in particolare l’articolo 4 dello Statuto del Lavoratori che è stato modificato dal Jobs Act, si dirà, e invece non è così: “La norma non fornisce né alle aziende né ai rappresentanti dei lavoratori dei paletti stringenti sull’uso dei dispositivi che rientrano nella casistica degli ‘strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa’ la cui introduzione, come recita la norma, non deve passare necessariamente da accordi sindacali”, sottolinea Marco Chiesara, Partner di Crea Avvocati Associati.

A proposito del limite, dov’è allora il confine tra l’uso delle tecnologie e la tutela della privacy, nonché “della serenità” dei lavoratori? Non è ancora stato definito, come spiega Chiesara: “La tecnologia, e con essa le nuove modalità di lavoro, evolve così rapidamente che le leggi non riescono a stare al passo. Sarà il tempo, le best pratice e la giurisprudenza a stabilire i limiti”.

La legge tutela aziende e lavoratori

Sono stati, infatti, il Jobs Act e il Piano per l’Industria 4.0 che ha introdotto “strumenti di trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi“ ad alimentare la (giustificata) paura del controllo da parte dei lavoratori. Controllo che alle volte può essere una ‘ricaduta’ dell’uso di strumenti tecnologici.

Un esempio ce lo fornisce Piero Martello, Presidente del Tribunale del Lavoro di Milano che di recente ha inaugurato con Guerini Next la rivista online gratuita Lavoro Diritti Europa: “Ricordo di un’azienda ospedaliera che aveva inserito dei chip nei camici dei medici in grado di segnalare la presenza degli indumenti in lavanderia, ma l’effetto era che tutti gli spostamenti di chi indossava quei camici venivano tracciati. Ma la Legge non contempla il controllo a distanza dei lavoratori”.

Martello chiarisce gli obiettivi dell’articolo 4 dello Statuto: “La norma contempla sia gli interessi dell’azienda perché prevede che le tecnologia siano inserite per la tutelare il patrimonio aziendale e il regolare svolgimento delle attività, ma anche la privacy e la dignità del lavoratore perché lo scopo di usare determinate tecnologie è legato alle esigenze produttive, passando dall’accordo con i sindacati e la regolamentazione interna. La sfida è conciliare le esigenze dell’azienda con quelle dei lavoratori”.

Gli smartwatch fanno paura come i braccialetti

Sfida che non sempre porta ai risultati sperati ed è ciò che è successo nell’azienda Dab che nel Padovano produce tecnologie per la movimentazione e la gestione dell’acqua: un mese fa i lavoratori hanno detto di no all’uso degli smartwatch, ma sì ai tablet. A spiegare la vicenda è Enrico Pana, Logistic Manager e Responsabile della digitalizzazione delle Operations di Dab: “Come molte aziende italiane, anche noi abbiamo avviato un progetto di digitalizzazione, grazie anche agli incentivi per l’Industria 4.0. Abbiamo creato una piattaforma integrata per migliorare il processo e l’integrazione dell’intero ciclo produttivo, possiamo definirla un’evoluzione della lean. Un programma ambizioso che ha incontrato alcune delle difficoltà”.

Pana fa riferimento alla proposta fatta dall’azienda ai rappresentati dei lavoratori di introdurre gli smartwatch per migliorare i processi produttivi: “Non pensavamo che la nostra proposta sarebbe stata bocciata perché riteniamo che lo smartwatch sia uno strumento d’uso comune e con la stessa utilità di uno smartphone. A differenza di Amazon, infatti, non abbiamo un brevetto, ma avremmo introdotto una tecnologia collaudata, perché sappiamo che è in uso in molte aziende italiane con ottimi risultati”.

Riuniti in assemblea però i lavoratori hanno detto di no, nonostante l’azienda avesse specificato che non sarebbe stata inserita la geolocalizzazione e che sarebbe stato garantito l’anonimato di chi avrebbe usufruito dello strumento: “Alla fine stiamo dotando le linee produtive di tablet e smartphone che assolvono alle stesse funzioni, ossia tracciare i prodotti, segnalare eventuali rischi o mancanze che mettono in pericolo la sicurezza dei lavoratori, dare accesso a pillole formative e migliorare lo scambio di informazioni, diminuendo l’uso della carta”.

Perché, allora, i lavoratori hanno detto di no agli smartwatch? “Per la scarsa conoscenza dello strumento che ha fatto nascere la paura del controllo. Abbiamo deciso comunque di rispettare le indicazioni dei lavoratori e insieme siamo arrivati a un compromesso, il tablet, appunto, che non limita il processo di digitalizzazione e non intacca la serenità dei lavoratori”.

Serve conoscenza per un confronto ‘ad armi pari’ tra azienda e lavoratori

Coinvolgimento, ascolto e confronto: quello che è avvenuto in Dab dovrebbe accadere in tutte le aziende, secondo quanto sostiene Paola Gilardoni, Segretario regionale della CISL Lombardia: “La tecnologia non deve essere percepita come un ostacolo alla dignità dei lavoratori, ma come uno strumento per tutelarla, perché migliora le condizioni di lavoro, ‘alleggerendo’ i carichi di lavoro e rendendo i processi produttivi più efficienti, ma anche perché favorisce la conciliazione vita lavoro, si pensi allo Smart working, per esempio”.

La sfida è governare il cambiamento in atto. Come? La via individuata da Gilardoni è la formazione: “Perché i lavoratori non si sentano minacciati dai nuovi strumenti e processi, devono conoscerli. Ben vengano, quindi, i finanziamenti prevista dal Piano Impresa 4.0 per l’adeguamento delle competenze”. L’uso delle tecnologie deve essere regolamentato e perché questo avvenga ci vuole un confronto ‘ad armi pari’ tra azienda e lavoratori: “È necessaria la partecipazione e il coinvolgimento dei dipendenti per cambiare i modelli organizzativi in maniera efficace e digitalizzare i processi. Ecco perché tutti devono raggiungere lo stesso grado di conoscenza”.