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La convivenza tra Intelligenza Artificiale e lavoro

Sistemi informatici che esprimono, come si dice, Intelligenza Artificiale (d’ora in avanti AI, in tributo all’espressione anglosassone Artificial Intelligence, coniata poco più di 60 anni fa negli Stati Uniti) sono sempre più disponibili sul mercato e si diffondono velocemente in diversi ambiti lavorativi (soprattutto in quello medico, legale e nella selezione e gestione delle risorse umane).

Questa crescente disponibilità sta alimentando anche un dibattito su quale possa essere l’impatto di questi sistemi su tali ambiti e sulla nostra società in generale. Ne è un segno l’uscita di numerosi libri sull’argomento negli ultimi anni, anche in lingua italiana: solo negli ultimi tre mesi (primavera 2019) sono uscite pubblicazioni dai sottotitoli molto espliciti, quali: “Possiamo fidarci dell’Intelligenza Artificiale?”; “Amica o nemica?”; “Come l’Intelligenza Artificiale cambia la nostra vita”.

Sono domande difficili e di grande, forse eccessiva, ampiezza. Ma una domanda più circoscritta che mi viene spesso rivolta nelle occasioni pubbliche in cui mi capita di parlare di questi argomenti è se l’AI (qualunque cosa noi si intenda con questa espressione) sarà presto in grado di sostituirci in molte attività lavorative; e quindi, se esiste il rischio reale che la sua diffusione possa far perdere il lavoro a molte persone, e in particolare a chi mi pone questa domanda.

Un po’ di tempo fa, un dubbio del genere sarebbe sembrato quantomeno esagerato, sia nelle premesse sia nelle temute conclusioni; ultimamente, però, la sua fondatezza è andata crescendo, almeno da quando i mass media hanno dato ampio risalto a uno studio svolto all’Università di Oxford (Frey e Osborne, 2017), in cui si sosteneva che, dei 700 e più lavori considerati, quasi uno su due (47%) fosse a rischio di completa automazione nel prossimo futuro.

Di solito evito la responsabilità di fornire una risposta intelligente a questa domanda (è possibile farlo, ma richiederebbe molto più tempo di quanto chi la formula sia disposto a sopportare), citando un noto fisico dell’inizio del secolo scorso, Niels Bohr, a cui è attribuita la battuta secondo cui “è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”.

Ciò detto, forse altre domande sono più pressanti rispetto a quelle che si limitano a considerare il problema della perdita del posto di lavoro a favore dell’AI, quali, per esempio, quelle che considera Kolko (2018): chi sopporterà maggiormente il peso delle conseguenze dell’automazione? In che modo l’automazione influirà sui salari e in che modo i salari influenzeranno l’automazione?

Anche se indirizzare queste domande, e altre collegate, richiederebbe probabilmente un saggio intero, o un numero speciale di questa rivista, in questa sede vorrei affrontare la questione comune che soggiace a tutte queste domande – cioè il pensiero che reputa possibile la “sostituzione” dell’uomo nel lavoro – e quindi riflettere sulle assunzioni che rendono queste domande plausibili.

Infatti, se anche fossimo in grado di costruire delle macchine capaci di automatizzare compiti che ora sono gli esseri umani a svolgere, e quindi sostituirci, dovremmo permetterlo? A questa domanda si risponde velocemente di sì, quando si pensa a quei casi dove l’automazione-sostituzione ci permetterebbe di sottoporre gli esseri umani a un numero minore di rischi, tanto per la loro salute, quanto per il loro benessere.

Quindi nei lavori cosiddetti usuranti, o in quelli in grado di alienare gli operatori per ripetitività e apparente insensatezza (come nel caso degli operatori sanitari per gli oneri amministrativi e documentali, soprattutto oltreoceano – Khan e Riaz, 2019).

Eppure, mentre la sicurezza è un concetto ben definito, collegato con un altrettanto preciso concetto di rischio, l’idea che l’automazione possa sollevarci da compiti ingrati e quindi contribuire al nostro benessere di lavoratori è un argomento delicato, che rischia di essere tanto irresistibile, quanto pieno di conseguenze inattese. Affrontiamo la questione facendo un passo indietro.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di maggio-giugno di Sviluppo&Organizzazione.
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