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Ripensare il futuro della Manifattura

Secondo le stime dell’ultimo rapporto del Centro Studi di Confindustria, le previsioni di crescita per il Prodotto interno lordo (Pil) 2022 sono calate di circa i due terzi rispetto a quanto ci si attendeva in precedenza. D’altra parte, lo scenario di guerra in Ucraina ha modificato le aspettative maturate negli ultimi mesi: la prospettiva per l’Italia è una recessione tecnica, cioè ci dobbiamo attendere almeno due trimestri consecutivi con la variazione negativa del Pil. 

Il futuro delle aziende – in particolare quelle manifatturiere (l’Italia è il secondo Paese d’Europa del settore Manufacturing) – è da ripensare: se prima il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) era necessario, ora non è più sufficiente per far fronte alla situazione; le priorità e le necessità sono quindi da ridisegnare alla luce delle possibili interruzioni delle forniture energetiche dalla Russia (decise anche dall’Europa e quindi l’auspicio è che ci siano strategie alternative) e delle catene di approvvigionamento che si sono interrotte prima a causa della pandemia e poi del conflitto ucraino. In un futuro estremamente incerto, le imprese hanno perso la ‘bussola’, proprio perché si devono affrontare sfide del tutto inedite e uno scenario inaspettato; ma proprio per questo le aziende non possono – e non riescono – programmare nulla. 

Fare business nell’era post globalizzazione 

Eppure serve rivedere le attività di business, a maggior ragione a fronte della fine della globalizzazione per come è stata intesa negli ultimi decenni: come ha riferito Larry Fink, CEO del colosso finanziario BlackRock, il colpo finale è stato assestato proprio dalla guerra in Ucraina. In realtà il conflitto ha esacerbato situazioni già in essere: basti pensare alle catene del valore che nel 2021 non sono riuscite a funzionare nel modo corretto, con la conseguenza delle materie prime (legno, plastica, ecc.) che scarseggiano.  

La chiusura – causata dalla nave Ever Given a marzo 2021 – del Canale di Suez, da cui transita il 12% del commercio mondiale, è un chiaro esempio dell’impatto di un ostacolo significativo per il commercio europeo. Un altro caso è la crisi dei microprocessori, non ancora terminata, la cui risoluzione si prospetta ancora più difficile se si pensa che le uniche due fabbriche europee produttrici del gas neon, utile al funzionamento dei laser per la produzione di questi prodotti, sono situate proprio in Ucraina. Vuol dire quindi che non possiamo più considerare il mondo un grande mercato, un emporio globale in cui acquistare materie prime e semilavorati. 

A regolare le dinamiche economiche future è ipotizzabile immaginare due tipologie di scambi: quelli globali, che continueranno a esistere per le materie prime (è il caso del petrolio); quelli limitati ad aree definite e meno ampie, cioè mercati tra zone limitrofe per lo scambio di differenti materiali. Difficile però dire se la nostra Manifattura riuscirà a vincere la sfida? Se la guerra in Ucraina dovesse proseguire oltre il 9 maggio – data della celebrazione della vittoria della Russia sulla Germania nazista e ipoteticamente giorno in cui potrebbero cessare le ostilità di Mosca contro Kiev – allora ci vorranno anni per riparare ai danni economici generati. 

In ogni caso, gli italiani, si sa, sono creativi e competenti, vantano inoltre un’esperienza manifatturiera lunga secoli ed è ipotetico immaginare che possano trarre un vantaggio competitivo dal saper fare rispetto a chi, nel corso del tempo, ha delegato questo aspetto a realtà di altri Paesi nel mondo.  

Ripensare la strategia per affrontare situazioni impreviste 

Una delle questioni da affrontare riguarda la revisione delle politiche energetiche nazionali per far fronte al momento di emergenza, per esempio riportando in funzione la cosiddetta ‘energia sporca’. L’Italia dovrà aumentare e diversificare i fornitori energetici, rivolgendosi anche ad altre aree del mondo – che non siano la Russia – come per esempio l’Algeria (per il gas) o la Norvegia. 

Il nostro Paese si sta comunque già muovendo su più fronti: sta attrezzando una flotta di navi cisterna grazie alle quali importare, via mare, le nuove forniture di gas; ma sta anche continuando a puntare sulle energie rinnovabili anche se – e questo può sembrare un paradosso – investire in fonti energetiche pulite richiede l’utilizzo dell’energia ‘sporca’ per costruire i macchinari necessari per quella alternativa. L’auspicio è di poter contare sul prezzo unico in Europa per l’energia, da considerare come la base per il mercato unico. 

Importante poi non far retromarcia rispetto agli obiettivi di sostenibilità fissati: l’Italia inquina meno rispetto alla media dei Paesi avanzati (l’Australia è il più inquinante a causa dell’altissimo numero di bovini presenti sull’isola), ma le aree più colpite sono quelle del Nord del Paese sia perché è qui che sono concentrate le imprese di produzione sia per il clima e la conformazione del territorio. Dunque, più che ipotizzare interventi globali, ci si dovrebbe orientare verso interventi locali. Certo è che l’Italia dovrebbe snellire il processo decisionale e mettere mano alla riforma della burocrazia: ci si augura che il Pnrr possa agevolare questo aspetto, sebbene il procedimento rischia di essere complicato dall’effetto collaterale imposto dall’attenzione a bloccare l’intromissione della malavita. 

Avvicinare la produzione ai mercati di riferimento 

I costi energetici elevati influiscono poi anche sul reshoring, cioè il rientro in patria delle produzioni, per lungo tempo esternalizzate e delocalizzate. In particolare serve concentrare l’attenzione non sulle produzioni locali – che devono restare vicino al mercato di riferimento – bensì su quelle che riforniscono le catene produttive interne. Le imprese dovrebbero, però, essere supportate da agevolazioni fiscali, perché ricollocare e produrre internamente impongono costi più elevati, ma consentono alle aziende di mettersi, almeno in parte, al riparto da incertezze e rischi futuri. 

Per fare impresa nell’era dell’insicurezza ci si può orientare rispetto a un orizzonte di circa due anni. Le aziende devono ripensare la propria strategia, abbandonando il just-in-time e tornando a riempire i magazzini, facendosi carico di costi più elevati del passato, ma che consentono di rispondere con rapidità ai vari rischi. Ci si può focalizzare sul just in case, cioè sulla possibilità che si presentino situazioni impreviste e sulla gestione degli effetti di imprevedibilità. La ricetta non esiste e va inventata: tra le linee guida da seguire c’è quella di affidare maggiore responsabilità alle associazioni industriali e alle reti diplomatiche, per affrontare l’emergenza in rete e conducendo trattative. 

Una classe imprenditoriale preparata al futuro 

Quello descritto è uno scenario nazionale; rispetto alla sfera locale, per esempio in Piemonte – regione da sempre caratterizzata dalla presenza di aziende impegnate in ambito Automotive – serve riscoprire il ruolo di questo settore, ricreando nuove tecniche produttive. Va in questa direzione il tavolo di discussione, già avviato, che coinvolge Regione, Comuni e Stellantis, uno dei principali costruttori automobilistici al mondo. 

Tra i fiori all’occhiello della produzione piemontese c’è poi il comparto Aerospaziale, che in futuro potrebbe crescere ulteriormente, poiché Torino è uno dei principali centri europei del settore; numerose tecnologie sono state inventate proprio in questo territorio, in cui esiste un tessuto imprenditoriale che può rispondere ad aspettative ambiziose.  

Nonostante le incognite e le sfide che le imprese devono affrontare nel breve periodo, è fondamentale che gli imprenditori non si scoraggino: qualunque cosa succeda, serve ampliare lo sguardo per trovare nuove strade per andare avanti e garantire continuità di business. 

Il testo è la trascrizione dell’intervento di Mario Deaglio alla tappa di Torino di FabbricaFuturo (8 aprile 2022).
Il testo – non rivisto dall’autore – è stato raccolto da Cecilia Cantadore.